Spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia e diritti della persona - ARCHIVIO 2013-2015
Sezione curata da Gaetano D’Avino e Rossana Palladino
Sezione curata da Gaetano D’Avino e Rossana Palladino
DICEMBRE 2015
La Corte giudica non in contrasto con l’ordinamento europeo (in particolare, con la direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, letto alla luce degli articoli 19, paragrafo 2, e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) la normativa nazionale che non conferisce un effetto sospensivo a un ricorso proposto contro una decisione di non esaminare ulteriormente una domanda di asilo reiterata.
Al fine di imprimere una accelerazione all’attuazione dell’Agenda europea sulla migrazione, la Commissione europea ha presentato, il 15 dicembre 2015, tre proposte di regolamenti su una “guardia costiera e di frontiera europea”, sulle modifiche al Codice frontiere Schengen, e sui documenti di viaggio per il rimpatrio. Ad esse si aggiunge la proposta di modifica al regolamento sull’Agenzia europea per la sicurezza marittima, nonché la raccomandazione su un “programma volontario di ammissione umanitaria” con la Turchia.
NOVEMBRE 2015
Non vi sono aggiornamenti normativi e giurisprudenziali
OTTOBRE 2015
La Commissione europea fa il punto sulle misure operative, sulle misure relative al sostegno finanziario e sull’attuazione del diritto dell’UE, relative alle azioni prioritarie presentate dalla Commissione europea il 23 settembre 2015 al fine di dare seguito all’Agenda europea sulla migrazione.
Sentenza della Corte (Quarta Sezione) del 1° ottobre 2015
(causa C‑290/14, Skerdjan Celaj)
Nella sentenza in commento, resa a seguito di un rinvio pregiudiziale disposto dal Tribunale di Firenze, la Corte ha chiarito che la corretta interpretazione della direttiva 2008/115, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare, non osta, in linea di principio, ad una normativa nazionale che preveda l’irrogazione di una pena detentiva nei riguardi di cittadino di Paese terzo il cui soggiorno sia irregolare, laddove tale soggetto, dopo essere ritornato nel proprio Paese d’origine in ottemperanza ad un’anteriore procedura di rimpatrio, rientri irregolarmente nel territorio del suddetto Stato trasgredendo il divieto di ingresso oppostogli.
SETTEMBRE 2015
L’Unione europea adotta misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia, al fine di aiutare tali Stati membri ad affrontare meglio la situazione di emergenza caratterizzata dall’afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi nel loro territorio, approvando la ricollocazione di complessivi 160.000 richiedenti protezione internazionale negli Stati membri. La Commissione europea ha, inoltre, presentato una proposta di regolamento che istituisce un meccanismo di ricollocazione di crisi e che modifica il regolamento (UE) n. 604/2013 (Dublino III), nonché predisposto delle azioni prioritarie per sostenere gli Stati membri che gestiscono afflussi eccezionali di rifugiati nei loro territori, attraverso la Comunicazione, Gestire la crisi dei rifugiati: misure operative, finanziarie e giuridiche immediate nel quadro dell’agenda europea sulla migrazione, Brussels, 23.9.2015, COM/2015/490 final.
Nel Piano d’Azione, la Commissione definisce le misure da prendere, sia nell’immediato che a medio termine, per rendere più efficace il sistema di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi in stato di irregolarità, disciplinato dalla direttiva 2008/115/CE.
La normativa nazionale che escluda dal beneficio di talune “prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo”, le quali sono anche costitutive di una “prestazione di assistenza sociale” i cittadini di altri Stati membri aventi lo status di persone in cerca di lavoro, mentre tali prestazioni sono garantite ai cittadini dello Stato membro in questione che si trovano nella medesima situazione, non viola il principio della parità di trattamento affermato nella direttiva 2004/38/CE.
La Corte considera sproporzionato, rispetto alla finalità perseguita dalla direttiva relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo (direttiva 2003/109/CE), la richiesta di pagamento di un contributo di importo variabile tra € 80 ed € 200 richiesto ai cittadini di paesi terzi che richiedono il rilascio o il rinnovo di un permesso di soggiorno.
AGOSTO 2015
Non vi sono aggiornamenti normativi e giurisprudenziali.
LUGLIO 2015
Sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 16 luglio 2015
(Kuldip Singh, Denzel Njume e Khaled Aly c. Minister for Justice and Equality, causa C-218/14)
La Corte ha chiarito che l’articolo 13, secondo paragrafo, della direttiva 2004/38/CE, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, debba essere interpretato nel senso che un cittadino di un Paese terzo, divorziato da un cittadino dell’Unione, il cui matrimonio sia durato almeno tre anni (di cui – ai sensi della citata disposizione – almeno uno nello Stato membro ospitante) prima dell’inizio del procedimento giudiziario di divorzio, non possa invocare il diritto al mantenimento del diritto di soggiorno in tale Stato membro, qualora il coniuge cittadino dell’Unione abbia lasciato il territorio del prefato Stato prima dell’inizio del procedimento giudiziario di divorzio. Il giudizio pregiudiziale in questione ha fornito altresì alla Corte l’occasione per ribadire che l’articolo 7, primo paragrafo 1, lettera b), della direttiva de qua debba essere interpretato nel senso che la condizione che il cittadino dell’Unione disponga, per sé stesso e per i suoi familiari, di risorse economiche sufficienti, possa dirsi rispettata anche qualora le suddette risorse provengano in parte da quelle del coniuge cittadino di un Paese terzo; ragionando diversamente, secondo la Corte, si introdurrebbe de facto «un requisito attinente alla provenienza delle risorse, che rappresenterebbe un’ingerenza sproporzionata nell’esercizio del diritto fondamentale di libera circolazione e di soggiorno garantito dall’articolo 21 TFUE, […] non […] necessario al raggiungimento dell’obiettivo perseguito, cioè la protezione delle finanze pubbliche degli Stati membri».
Sentenza della Corte (Seconda Sezione) del 9 luglio 2015
(Minister van Buitenlandse Zaken c. K., A., causa C‑153/14)
Le misure di integrazione, imposte dalle autorità nazionali ai familiari di cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti ai fini del ricongiungimento familiare (direttiva 2003/86/CE), sono illegittime nei limiti in cui non consentono di prendere in considerazione le circostanze particolari che impediscono oggettivamente agli interessati di poter superare tale esame e fissano l’importo delle spese relative a tale esame ad un livello troppo elevato, rendono impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritto al ricongiungimento familiare.
Sentenza del Tribunale del 2 luglio 2015
(Typke c. Commissione europea, causa T-214/13)
La pronuncia del Tribunale offre chiarimenti circa la possibilità di includere, nella nozione di documento accessibile (ai sensi del regolamento 1049/2001), il contenuto informativo delle banche dati.
Conclusioni del Consiglio europeo del 25-26 giugno 2015
A seguito dell’Agenda europea sulla migrazione, il Consiglio europeo ha concordato sull’adozione di misure su tre aspetti chiave per affrontare il problema dei flussi migratori: ricollocazione/reinsediamento, rimpatrio/riammissione/reintegrazione e cooperazione con i paesi di origine e di transito. Inoltre, il Consiglio ha richiesto agli Stati membri interventi per rafforzare il settore della sicurezza e della difesa, in ossequio all’Agenda europea sulla sicurezza.
Sentenza della Corte di giustizia (Prima Sezione) del 24 giugno 2015
(H.T. c. Land Baden-Württemberg, causa C‑373/13)
Nella sentenza de qua, la Corte ha chiarito, in via pregiudiziale, che la direttiva 2004/83, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, dev’essere interpretata nel senso che, una volta che sia stato rilasciato ad un rifugiato un permesso di soggiorno, esso possa essere revocato o in forza dell’articolo 24, par. 1, allorquando sussistano imperiosi motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico, oppure, in applicazione dell’articolo 21, par. 3, laddove ricorrano i motivi ex art. 21, par. 2, per applicare la deroga al principio di non respingimento. In particolare, l’attività di il sostegno ad un’associazione terroristica iscritta nell’elenco allegato alla posizione comune 2001/931/PESC, relativa all’applicazione di misure specifiche per la lotta al terrorismo, può costituire uno degli «imperiosi motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico» rilevanti ai sensi dell’articolo 24, par. 1, della direttiva 2004/83; in tali ipotesi, affinché si possa procedere alla revoca del permesso di soggiorno, le autorità competenti sono tuttavia tenute a procedere, sotto il controllo dei giudici nazionali, ad una valutazione individuale degli specifici elementi di fatto relativi alle azioni commesse dal soggetto ed all’attività dell’associazione di cui si discute. Laddove uno Stato membro decida di allontanare un rifugiato il cui permesso di soggiorno sia stato revocato, ma sospenda l’esecuzione di tale decisione, non può poi privare il soggetto in questione dell’accesso alle prestazioni garantite dal capo VII della citata direttiva, salvo che trovi applicazione una delle eccezioni ivi espressamente previste.
Sentenza della Corte di giustizia (Terza Sezione) dell’11 giugno 2015
(Z. Zh. c. Staatssecretaris voor Veiligheid en Justitie e Staatssecretaris voor Veiligheid en Justitie c. I. O., causa C-554/13)
Nella sentenza in commento, la Corte ha sancito che la corretta interpretazione dell’art. 7, par. 4, della direttiva rimpatri, recante n. 2008/115, osti ad una prassi nazionale in forza della quale l’individuo che soggiorni in modo irregolare nel territorio di uno Stato membro possa essere considerato quale fonte di pericolo per l’ordine pubblico soltanto perché sia stata pronunciata nei suoi confronti una condanna di natura penale ovvero si tratti di soggetto sospettato di avere commesso un delitto secondo il diritto nazionale. La suddetta valutazione di “pericolosità” dev’essere operata caso per caso, alla luce di elementi concreti, quali la gravità e la natura del fatto, il tempo trascorso dalla commissione del delitto e la circostanza che il soggetto fosse in procinto di lasciare il territorio statuale quando fermato dalle autorità. Secondo la Corte, inoltre, il ricorso alla facoltà, offerta dalla disposizione in parola, di astenersi dalla concessione di un periodo utile alla partenza volontaria, non richiede un nuovo esame degli elementi già esaminati per costatare la sussistenza della pericolosità del soggetto per l’ordine pubblico; qualsiasi normativa o prassi di uno Stato membro in materia deve tuttavia garantire che sia verificato, caso per caso, se la mancata concessione del periodo in parola sia compatibile con il rispetto dei diritti fondamentali.
MAGGIO 2015
Relazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, Relazione 2014 sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,Bruxelles, 8.05.2015, COM(2015) 191 final
La relazione della Commissione esamina l’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea da parte sia delle istituzioni dell’UE sia degli Stati membri. Essa fornisce un aggiornamento in merito all’adesione dell’UE alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), considerata quale strumento giuridico di estrema importanza per la tutela dei diritti fondamentali in Europa, nonché include una sezione di approfondimento su di un tema considerato dalla Commissione europea di “attualità emergente”, ossia quello dei diritti fondamentali nell’ambiente digitale.
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, Agenda europea sulla migrazione, Bruxelles, 13.05.2015, COM(2015) 240 final
Sul presupposto di operare per fronteggiare la tragedia delle migliaia di migranti che rischiano la vita per attraversare il Mediterraneo, la Commissione europea ha presentato un’Agenda europea sulla migrazione, individuando delle misure di azione immediate (tra le quali la triplicazione della dotazione delle operazioni congiunte Triton e Poseidon di Frontex) e quattro pilastri per gestire meglio la migrazione a lungo termine (ridurre gli incentivi alla migrazione irregolare; gestire le frontiere; una politica comune europea di asilo forte; una nuova politica di migrazione legale).
A seguito dell’Agenda, la Commissione ha adottato un Piano di Azione europeo contro il traffico di migranti, per il periodo 2015-2020.
APRILE 2015
Sentenza della Corte (Quarta Sezione) del 23 aprile 2015
(Subdelegación del Gobierno en Guipuzkoa – Extranjería c. Samir Zaizoune, causa C-38/14)
La Corte considera non compatibile con la direttiva 2008/115/CE (cd. ‘direttiva rimpatri’) la normativa statale che imponga, in caso di soggiorno irregolare di cittadini di paesi terzi nel territorio di tale Stato, a seconda delle circostanze, o un’ammenda o l’allontanamento, essendo queste ultime delle misure applicabili l’una ad esclusione dell’altra.
Sentenza della Corte (Quarta Sezione) del 16 aprile 2015
(W.P. Willems c. Burgemeester van Nuth e atri, cause reunite da C‑446/12 a C‑449/12)
La pronuncia chiarisce che il regolamento (CE) n. 2252/2004 del Consiglio, del 13 dicembre 2004, relativo alle norme sulle caratteristiche di sicurezza e sugli elementi biometrici dei passaporti e dei documenti di viaggio rilasciati dagli Stati membri non è applicabile alle carte d’identità rilasciate da uno Stato membro ai propri cittadini e ciò indipendentemente tanto dalla durata della loro validità quanto dalla possibilità di utilizzarle nel corso di viaggi effettuati al di fuori di tale Stato. Inoltre, gli Stati membri non sono obbligati a garantire nella loro legislazione nazionale che i dati biometrici rilevati e conservati conformemente al suddetto regolamento non saranno rilevati, trattati e utilizzati a fini diversi dal rilascio del passaporto o del documento di viaggio, non rientrando siffatto aspetto nell’ambito di applicazione del summenzionato regolamento.
MARZO 2015
La Commissione europea fa il punto sulla politica dell’UE su rimpatrio dei migranti in situazione di irregolarità, evidenziando gli sviluppi connessi all’attuazione della direttiva 2008/115/CE (cd. direttiva rimpatri) e le ulteriori sfide per il futuro, principalmente legate al maggiore rispetto dei diritti fondamentali, specie con riferimento alle condizioni di trattenimento dei migranti e ai mezzi di ricorso efficaci.
Si segnala inoltre…
Il Research Service del Parlamento europeo ha pubblicato uno studio sul ruolo della Carta dei diritti fondamentali dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
FEBBRAIO 2015
Sentenza della Corte di giustizia (Seconda Sezione) del 26 febbraio 2015
(Andre Lawrence Shepherd c. Bundesrepublik Deutschland, causa C‑472/13)
La Corte di giustizia precisa la portata dell’articolo 9 della direttiva 2004/38/CE, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, fissando i criteri di applicazione della protezione riconosciuta dalla direttiva nell’ipotesi di un militare statunitense che ha rifiutato di prestare servizio in Iraq.
Nel più ampio processo di “codificazione” delle disposizioni che hanno subito frequenti modifiche – intrapreso dalle Istituzioni europee ai fini di chiarezza e trasparenza – la Commissione europea propone di avviare la codificazione del regolamento (CE) n. 562/2006 che istituisce un codice comunitario relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone (cd. codice frontiere Schengen).
DICEMBRE 2014
Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 18 dicembre 2014
Lo scopo di prevenzione generale non può consentire ad uno Stato membro di richiedere ai familiari di un cittadino dell’Unione europea, non aventi la cittadinanza di uno Stato membro e titolari di una carta di soggiorno in corso di validità rilasciata dall’autorità di un altro Stato membro, l’obbligo di essere in possesso, ai sensi delle disposizioni di diritto nazionale, di un permesso di ingresso al fine di poter entrare nel suo territorio. In tal senso la Corte interpreta l’articolo 35 della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.
Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 18 dicembre 2014
(Mohamed M’Bodj c. État belge, causa C‑542/13)
Interpretando gli articoli 28 e 29 della cd. Direttiva Qualifiche (2004/83/CE), la Corte ritiene che gli Stati membri sono tenuti a concedere assistenza sociale e sanitaria esclusivamente ai beneficiari dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria. Al contrario, essi non sono tenuti a riconoscere tali benefici in capo ai cittadini di paesi terzi autorizzati a soggiornare per motivi di salute sulla base di una normative nazionali, ossia a titolo discrezionale e per ragioni caritatevoli o umanitarie.
Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 18 dicembre 2014
(Centre public d’action sociale d’Ottignies-Louvain-la-Neuve c. Moussa Abdida, causa C-562/13)
Ai sensi della direttiva 2008/115/CE, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare, l’effettività del ricorso proposto avverso una decisione di rimpatrio la cui esecuzione possa esporre il cittadino di un Paese terzo ad un rischio serio di deterioramento grave ed irreversibile delle sue condizioni di salute, impone che il soggetto interessato disponga di un ricorso con effetto sospensivo, di talché possa garantirsi che la decisione non sia eseguita prima che l’autorità competente abbia avuto la possibilità di esaminare la censura relativa ad una violazione dell’articolo 5 della direttiva stessa, letto alla luce dell’art. 19, par. 2, della Carta. In tali ipotesi, gli Stati membri sono tenuti ad offrire tutte le garanzie previste dall’articolo 14 della direttiva 115/2008; in particolare lo Stato membro interessato è tenuto, in applicazione dell’art. 14, par. 1, lett. b), e ferma restando la discrezionalità nella scelta delle forme opportune, a prendere in carico, per quanto possibile, anche le necessità primarie del soggetto, qualora egli sia privo dei mezzi per provvedere alle proprie esigenze.
Sentenza della Corte (Quinta Sezione) dell’11 dicembre 2014
(Khaled Boudjlida c. Préfet des Pyrénées-Atlantiques, causa C-249/13)
La pronuncia chiarisce il contenuto ed i limiti del diritto ad essere ascoltato per un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare in qualunque procedimento applicabile nell’ambito della direttiva 2008/115/CE (cd. direttiva rimpatri). In particolare, secondo l’interpretazione della Corte, tale diritto include il diritto di manifestare, prima dell’adozione di una decisione di rimpatrio, il proprio punto di vista sulla regolarità del soggiorno e sulle modalità del rimpatrio. Per contro, esso non impone all’autorità nazionale competente l’obbligo né di avvertire il soggiornante irregolare prima dell’audizione organizzata in vista dell’adozione del provvedimento di espulsione, né di comunicargli gli elementi sui quali essa intende fondare la medesima.
Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 2 dicembre 2014
La Corte si pronuncia circa le modalità con le quali le autorità nazionali procedono alla verifica dell’asserito orientamento sessuale di un richiedente asilo, la cui domanda è fondata sul timore di persecuzione a causa di tale orientamento, in particolare censurando alcune pratiche nazionali anche alla luce dell’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali.
NOVEMBRE 2014
Dalla relazione della Commissione emerge la necessità di un rafforzamento della cooperazione tra gli Stati nello spazio Schengen, specie al fine di fronteggiare le problematiche di maggiore attualità, quale il notevole aumento degli attraversamenti irregolari delle frontiere terrestri orientali dell’UE.
Sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) dell’11 novembre 2014
(Elisabeta Dano, Florin Dano c. Jobcenter Leipzig, causa C‑333/13)
Nella sentenza in commento, la Corte, interrogata in via pregiudiziale, ha sancito che la corretta interpretazione del combinato disposto degli articoli 24, par. 1, e 7, par. 1, lett. b), della direttiva n. 38/2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, né quella dell’articolo 4 del regolamento n. 883/2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, ostino all’applicabilità della normativa di uno Stato membro in forza della quale i cittadini di un diverso Stato dell’Unione che non godano del diritto di soggiorno, siano esclusi dai benefici di prestazioni assistenziali (i.e. «prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo» ex art. 70, par. 2, reg. 883/2004), mentre tali prestazioni sono garantite ai cittadini dello Stato ospitante. Se è vero infatti che uno dei cardini della disciplina sopra richiamata è costituito dal principio di non discriminazione, è anche vero che un’esplicita e rilevante deroga è prevista al riguardo dall’art. 24, par. 2, della direttiva n. 38/2004, così come è vero che tra gli obiettivi che la direttiva in questione si propone di perseguire vi è anche quello di «evitare che i cittadini dell’Unione economicamente inattivi utilizzino il sistema di protezione sociale dello Stato membro ospitante per finanziare il proprio sostentamento». Come rilevato dall’Avvocato generale nelle proprie conclusioni, «l’eventuale esistenza di una disparità di trattamento, quanto alla concessione di prestazioni sociali, fra i cittadini dell’Unione che si s[ia]no avvalsi della loro libertà di circolazione e di soggiorno e i cittadini dello Stato membro ospitante è una conseguenza inevitabile della direttiva 2004/38». Tale potenziale disparità, secondo la Corte, «si fonda sul rapporto instaurato dal legislatore dell’Unione all’articolo 7 della summenzionata direttiva fra la necessità di disporre di risorse economiche sufficienti quale condizione di soggiorno, da un lato, e l’esigenza di non creare un onere per il sistema di assistenza sociale degli Stati membri, dall’altro»; sicché privare uno Stato membro di tale possibilità comporterebbe null’altro se non «che persone che non a[vessero], al momento del loro ingresso nel territorio di un altro Stato membro, le risorse sufficienti per far fronte ai propri bisogni, verrebbero automaticamente a disporne».
Sentenza della Corte (Quinta Sezione) del 5 novembre 2014
(Sophie Mukarubega c. Préfet de police, Préfet de la Seine-Saint-Denis, causa C‑166/13)
La Corte ricostruisce il diritto al contraddittorio in capo ai cittadini di paesi terzi sottoposti ad una procedura di rimpatrio ai sensi della direttiva 2008/115/CE (cd. direttiva rimpatri). Nel valutare la fattispecie concreta, la Corte afferma che il rispetto di tale diritto non impedisce che un’autorità nazionale non ascolti il cittadino di un paese terzo specificamente in merito a una decisione di rimpatrio allorché, dopo aver constatato l’irregolarità del suo soggiorno nel territorio nazionale in esito a una procedura che ha pienamente rispettato il suo diritto di essere ascoltato, intenda adottare nei suoi confronti una decisione di tale tipo, a prescindere dal fatto che tale decisione di rimpatrio sia successiva o no a un diniego del permesso di soggiorno.
OTTOBRE 2014
Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo sull’applicazione della direttiva 2004/81/CE riguardante il titolo di soggiorno da rilasciare ai cittadini di paesi terzi vittime della tratta di esseri umani coinvolti in un’azione di favoreggiamento dell’immigrazione illegale che cooperino con le autorità competenti, Bruxelles, 17.10.2014, COM(2014) 635 final
La Commissione europea fa il punto sui progressi realizzati nell’applicazione delle disposizioni della direttiva 2004/81/CE che, nel loro complesso, sono strettamente connesse alla direttiva 2011/36/UE concernente la prevenzione e repressione della tratta di esseri umani. Dalla Comunicazione emerge anche la necessità di potenziare alcuni strumenti da essa previsti, quale la possibilità di rilasciare titoli di soggiorno temporanei a cittadini di paesi terzi in cambio della cooperazione con le autorità competenti all'accertamento di ipotesi di violazioni connesse alla tratta di esseri umani.
Sentenza della Corte (Quarta Sezione) del 2 ottobre 2014
(U c/ Stadt Karlsruhe, causa C-101/13)
Sollecitata a rispondere a quattro quesiti pregiudiziali, la Corte fornisce elementi di interpretazione utili nell’applicazione pratica dell’allegato al Regolamento n. 2252/2004 (relativo alle norme sulle caratteristiche di sicurezza e sugli elementi biometrici dei passaporti e dei documenti di viaggio rilasciati dagli Stati membri) e successive modifiche in relazione alla figurazione del nome e dei dati anagrafici sui passaporti.
SETTEMBRE 2014
La Commissione europea pubblica un Manuale sui matrimoni fittizi ai sensi della direttiva 2004/38/CE, ossia quei matrimoni contratti all’unico scopo di usufruire del diritto di libera circolazione e di soggiorno in virtù della direttiva, che altrimenti non avrebbe potuto essere esercitato. Il Manuale rappresenta la realizzazione di una delle azioni previste nella tabella di marcia dal titolo “Azione dell’UE sulle pressioni migratorie – Una rispsta strategica” adottata dal Consiglio Giustizia nella riunione del 26-27 aprile 2012.
Sentenza della Corte (Seconda Sezione) del 10 settembre 2014
(Iraklis Haralambidis c. Calogero Casilli, causa C-270/13)
Agli Stati membri non è concesso di riservare ai propri cittadini l’esercizio delle funzioni di presidente di un’autorità portuale (nel caso di specie, l’autorità portuale di Brindisi), facendo leva sulla deroga alla libera circolazione dei lavoratori contenuta nell’articolo 45, par. 4, del TFUE.
Sentenza della Corte (Terza Sezione) del 10 settembre 2014
(Mohamed Ali Ben Alaya c. Bundesrepublik Deutschland, causa C-491/13)
Nella sentenza in commento, la Corte ha sancito che l’articolo 12 della direttiva n. 114 del 2004, relativa alle condizioni di ammissione dei cittadini di Paesi terzi per motivi di studio, scambio di alunni, tirocinio non retribuito o volontariato, imponga agli Stati membri l’ammissione di quei cittadini di Paesi terzi che, per motivi di studio, manifestino l’intenzione di soggiornare nel territorio nazionale oltre il periodo di tre mesi; tanto laddove i richiedenti soddisfino i requisiti di ammissione previsti dagli articoli 6 e 7 e non ricorra una delle ipotesi, espressamente indicate dalla direttiva de qua (e non già da fonti di diritto interno), che possa giustificare il diniego di un permesso.
Sentenza della Corte di giustizia (Quarta Sezione) del 4 settembre 2014
(Air Baltic Corporation AS c. Valsts robežsardze, causa C‑575/12)
Interrogata in via pregiudiziale, la Corte ha chiarito che gli articoli 24, par. 1, e 34 del regolamento n. 810 del 2009, che istituisce un codice comunitario dei visti (c.d. codice dei visti), debbano essere interpretati nel senso che l’annullamento, da parte dell’Autorità di un Paese terzo, del documento di viaggio, non comporti, ipso iure, l’invalidità del visto uniforme apposto su tale documento. Secondo i Giudici di Lussemburgo, inoltre, dal combinato disposto dell’articolo 5, par. 1, e dell’articolo 13, par. 1, della versione consolidata del regolamento n. 562 del 2006, che istituisce un codice comunitario relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone (c.d. codice frontiere Schengen), non può desumersi che l’ingresso di cittadini di Paesi terzi nel territorio degli Stati membri sia subordinato alla condizione che, al momento della verifica di frontiera, il visto valido presentato debba essere necessariamente apposto su un valido documento di viaggio. Ne è discesa pertanto una dichiarazione di censura della normativa nazionale lettone, quale quella venuta in questione nella sentenza in commento, che per l’appunto subordinava l’ingresso nel territorio nazionale di cittadini di Paesi terzi all’osservanza della menzionata condizione.
AGOSTO 2014
Non vi sono aggiornamenti normativi e giurisprudenziali.
LUGLIO 2014
Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 17 luglio 2014
(Adala Bero c. Regierungspräsidium Kassel e Ettayebi Bouzalmate c. Kreisverwaltung Kleve, cause riunite C‑473/13 e C‑514/13)
Un cittadino di uno paese terzo, in stato di trattenimento ai fini dell’allontanamento, non può essere ospitato in un istituto penitenziario insieme ai detenuti comuni. Nell’interpretare l’articolo 16, par. 1, seconda frase della direttiva 2008/115/CE (cd. direttiva rimpatri), la Corte ha statuito che ciò non sia possibile nemmeno quando vi sia il consenso del cittadino in questione a tale tipo di sistemazione.
Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 17 luglio 2014
(Thi Ly Pham c. Stadt Schweinfurt, Amt für Meldewesen und Statistik, causa C-474/13)
Sulla base dell’articolo 16, par. 1, della direttiva 2008/115/CE (cd. direttiva rimpatri), le autorità competenti di uno Stato federato che non dispongano di appositi centri di permanenza temporanea per i cittadini di paesi terzi devono comunque garantire – sulla base di accordi di cooperazione amministrativa – la sistemazione di tali cittadini in appositi centri di permanenza temporanea situati in altri Stati federati.
Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 17 luglio 2014
(Angelo Alberto Torresi e Pierfrancesco Torresi c. Consiglio dell’ordine degli avvocati di Macerata, cause riunite C‑58/13 e C‑59/13)
La Corte di giustizia, in sede di rinvio pregiudiziale, precisa che l’art. 3 della direttiva 98/5/CE del 16 febbraio 1998, deve essere interpretato nel senso non può costituire una pratica abusiva il fatto che il cittadino di uno Stato membro si rechi in un altro Paese UE al fine di acquisirvi la qualifica professionale di avvocato a seguito del superamento di esami universitari e faccia ritorno nel primo Stato di cui è cittadino per esercitarvi la professione forense con il titolo professionale ottenuto in altro Paese dell’Unione europea.
Sentenza della Corte (Terza Sezione) de 17 luglio 2014
(Shamim Tahir c. Ministero dell’Interno, Questura di Verona, causa C-469/13)
Il familiare di un cittadino di un paese terzo che abbia acquisito lo status di soggiornante di lungo periodo (ai sensi della direttiva 2003/109/CE) non può essere esentato dal rispetto della condizione fissata nell’articolo 4, par. 1 della direttiva che prevede il soggiorno legale ed ininterrotto nello Stato membro interessato per cinque anni immediatamente precedenti alla presentazione della domanda. Né, secondo la Corte, la direttiva consente che uno Stato membro rilasci al suddetto familiare un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo a condizioni più favorevoli.
Sentenza della Corte (Terza Sezione) del 17 luglio 2014
(YS c. Minister voor Immigratie, Integratie en Asiel e Minister voor Immigratie, Integratie en Asiel c. M, S, causa riunite C‑141/12 e C‑372/12)
Nella sentenza de qua, la Corte ha chiarito che il portato della direttiva n. 46 del 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, risulti applicabile anche alla situazione del richiedente un titolo di soggiorno e ricomprenda i dati che compaiono nel documento amministrativo ove viene esposta, da parte del funzionario competente, la motivazione da questi addotta a sostegno della bozza di decisione che il medesimo funzionario è incaricato di redigere nell’ambito del procedimento precedente all’adozione della decisione sulla domanda di soggiorno. Se tanto è valido per i dati personali e, per così dire, “storici” propri del soggetto, la stessa conclusione non vale, secondo la Corte, per l’analisi giuridica compiuta dal suddetto funzionario: tanto asseconderebbe, infatti, in realtà, non già l’obiettivo della direttiva de qua, consistente nell’assicurare la tutela del diritto alla vita privata del richiedente con riferimento al trattamento dei dati che lo riguardino, ma garantirebbe al contrario un diritto di accesso ai documenti amministrativi che tuttavia non forma oggetto della norma in questione. Ad ogni buon conto, nell’interpretazione resa dai Giudici di Lussemburgo, affinché il diritto sopra descritto sia soddisfatto, è sufficiente che al richiedente sia consegnata un’esposizione dei propri dati che sia completa e resa in forma intelligibile, ossia in maniera tale da permettere al soggetto interessato di prendere conoscenza dei dati medesimi, di verificarne l’esattezza e di poter controllare che gli stessi siano trattati in modo conforme alle norme della direttiva, così da consentire, se del caso, l’esercizio dei diritti conferiti dalla direttiva medesima. Né il richiedente un titolo di soggiorno può trarre dall’articolo 41, paragrafo 2, lettera b), della Carta un diritto di accesso al fascicolo nazionale relativo alla sua domanda, in quanto la norma da ultima richiamata non si rivolge agli Stati membri bensì unicamente alle Istituzioni, agli organi e agli organismi dell’Unione.
Sentenza della Corte (Seconda Sezione) del 17 luglio 2014
(Marjan Noorzia c. Bundesministerin für Inneres, causa C-338/13)
La Corte interpreta la clausola facoltativa contenuta nell’articolo 4, par. 5, della direttiva 2003/86/CE (sul ricongiungimento familiare dei cittadini di paesi terzi) che consente agli Stati membri di imporre un limite minimo di età per il soggiornante ed il coniuge, che può essere al massimo pari a ventun anni e che deve essere raggiungo affinché il ricongiungimento familiare possa avere luogo. In particolare, secondo la Corte, è conforme con l’ordinamento europeo la norma nazionale che prevede che i coniugi e i partner registrati debbano già avere compiuto il ventunesimo anno di età al momento della presentazione della domanda per poter essere considerati quali familiari ammissibili al ricongiungimento.
Sentenza della Corte (Seconda Sezione) del 10 luglio 2014
(Naime Dogan c. Bundesrepublik Deutschland, causa C-183/13)
Prodromico rispetto alla sentenza in commento, il rinvio pregiudiziale disposto, da parte del Verwaltungsgericht Berlin, in merito all’interpretazione dell’art. 41, par. 1, del Protocollo addizionale del 1970 allegato all’Accordo che crea un’Associazione tra la Comunità economica europea e la Turchia nonché dell’art. 7, par. 2, primo comma, della direttiva n. 86 del 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare. Col rinvio, il giudice a quo tendeva innanzitutto a determinare se la norma del citato Protocollo – ed, in particolare, la clausola di standstill ivi prevista – potesse ostare ad una misura di diritto interno, introdotta nell’ordinamento tedesco dopo l’entrata in vigore del citato Protocollo, che imponga ai coniugi di cittadini turchi residenti in detto Stato membro, che intendano fare ingresso nel territorio di tale Stato per ricongiungimento familiare, di provare previamente l’acquisizione di conoscenze linguistiche elementari della lingua ufficiale del medesimo Stato membro quale pre-condizione per il riconoscimento del diritto in questione. La Corte, sulla premessa che il ricongiungimento familiare costituisca uno strumento indispensabile per permettere la vita in famiglia dei lavoratori turchi inseriti nel mercato del lavoro di uno degli Stati membri e contribuisca pertanto a migliorare tanto la qualità del soggiorno quanto un’effettiva integrazione, ha ritenuto che la normativa nazionale de qua dovesse essere considerata alla stregua di una «nuov[a] restrizion[e]», come tale in linea di principio vietata dal citato art. 41 a meno che non giustificata da un motivo imperativo di interesse generale, idonea a garantire il raggiungimento dell’obiettivo perseguito e proporzionata rispetto a quanto necessario per il conseguimento del medesimo. Nella fattispecie, la Corte ha censurato la normativa nazionale in questione in quanto, anche supponendo che le ragioni esposte dal governo tedesco (ossia l’obiettivo di contrastare i matrimoni forzati e quello di favorire l’integrazione) potessero teoricamente costituire motivi imperativi di interesse generale, nondimeno una disposizione come quella controversa sarebbe andata al di là di quanto necessario per ottenere l’obiettivo perseguito, dal momento che la mancata prova dell’acquisizione di sufficienti conoscenze linguistiche avrebbe comportato automaticamente il rigetto della domanda di ricongiungimento familiare, senza tenere conto delle circostanze proprie di ciascun caso di specie.
Sentenza della Corte (Seconda Sezione) del 10 luglio 2014
(Ewaen Fred Ogieriakhi c. Minister for Justice and Equality, causa C-244/13)
Nella sentenza in commento, la Corte ha chiarito che l’art. 16, par. 2, della direttiva n. 38 del 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, debba essere interpretato nel senso che il diritto di soggiorno permanente ivi previsto debba essere riconosciuto anche al cittadino di un Paese terzo il quale, nel corso di un periodo continuativo di cinque anni antecedente alla data di recepimento della suddetta direttiva, abbia soggiornato in uno Stato membro, in qualità di coniuge di un cittadino dell’Unione lavoratore nel medesimo Stato membro, sebbene, nel corso del suddetto periodo, i coniugi abbiano deciso di separarsi, abbiano iniziato a convivere con altri partner e l’alloggio occupato dal suddetto cittadino non sia stato più messo a sua disposizione. Non osta a tale interpretazione, secondo i Giudici di Lussemburgo, nemmeno il disposto dell’art. 10, par. 3, del regolamento n. 1612 del 1968, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità, in quanto la norma da ultima richiamata non esige che il familiare di cui trattasi abiti in permanenza nell’alloggio messo a disposizione dal congiunto lavoratore, ma unicamente che l’alloggio di cui il lavoratore dispone possa considerarsi “normale” per ospitare la sua famiglia. Infine, la Corte ha escluso che la circostanza per la quale, nell’ambito di un’azione di risarcimento danni per violazione del diritto dell’Unione, un giudice nazionale abbia ritenuto necessario porre una questione pregiudiziale, vertente sul diritto dell’Unione in esame nel procedimento principale, debba considerarsi quale elemento decisivo al fine di determinare se sussista o meno una violazione manifesta di tale diritto da parte dello Stato membro ai fini del riconoscimento della responsabilità al risarcimento dei danni conseguenti alla violazione del diritto unionistico.
GIUGNO 2014
Conclusioni del Consiglio europeo del 26-27 giugno 2014
Il Consiglio europeo ha definito gli orientamenti strategici della programmazione legislativa e operativa nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia (parte I delle Conclusioni) per gli anni a venire e ha, altresì, trattato alcune questioni orizzontali connesse. Si segnala, in particolare, la “priorità generale” del recepimento coerente, dell’attuazione efficace e del consolidamento degli strumenti giuridici e delle misure politiche in vigore. Inoltre, le Conclusioni sottolineano il ruolo essenziale che sarà svolto dalla protezione e promozione dei diritti fondamentali nell’ulteriore sviluppo dello Spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia.
Sentenza della Corte (Prima sezione) del 19 giugno 2014
(Jessy Saint Prix c. Secretary of State for Work and Pensions, causa C-507/12)
Una donna, che smetta di lavorare o di cercare un impiego a causa delle limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della gravidanza e al periodo successivo al parto, conserva la qualità di “lavoratore” ai sensi dell’articolo 45 TFUE e dell’articolo 7, par. 1, lett. a) della direttiva 2004/38/CE, purché essa riprenda il suo lavoro o trovi un altro impiego entro un ragionevole periodo di tempo dopo la nascita di suo figlio.
Sentenza della Corte di giustizia (Terza Sezione) del 5 giugno 2014
(Bashir Mohamed Ali Mahdi, causa C-146/14 PPU)
Interrogata in via pregiudiziale in merito all’interpretazione della direttiva n. 115 del 2008 (cd. direttiva rimpatri), la Corte ha statuito che l’articolo 15 della medesima, letto alla luce degli articoli 6 e 47 della Carta dei diritti fondamentali, debba essere interpretato nel senso che qualsiasi decisione adottata dalle Autorità competenti al termine del periodo massimo iniziale di trattenimento, e vertente sul seguito da riservare al trattenimento stesso, debba essere redatta in forma scritta e contenere l’esposizione delle motivazioni di fatto e di diritto che la sottendono. In particolare, secondo la Corte, il riesame che le Autorità nazionali sono chiamate a compiere all’uopo dev’essere strutturato nel senso di consentire una pronunzia sul merito della questione, da adottarsi caso per caso, e deve prevedere la possibilità che le medesime Autorità decidano tanto sulla proroga del trattenimento, tanto sulla possibilità di sostituire al trattenimento una misura meno coercitiva quanto, infine, sul rilascio del soggetto interessato. Nell’interpretazione resa dai Giudici di Lussemburgo, inoltre, una disciplina nazionale – come quella venuta in rilievo nel caso di specie – che legittimi un provvedimento di proroga del periodo iniziale semestrale di trattenimento per il sol fatto che il cittadino del Paese terzo sia privo di documenti d’identità, si pone in posizione antinomica col diritto dell’Unione (e, in particolare, con i paragrafi primo e sesto dell’art. 15 della direttiva de qua), dal che discende l’obbligo alla relativa disapplicazione. Infine, se è vero che, pure laddove sia stato disposto il rilascio dello straniero sprovvisto di documento d’identità, gli Stati membri non siano tenuti a concedere permessi di soggiorno od altre autorizzazioni di analogo contenuto, la Corte ha sancito l’obbligo, in casi del genere, di consegnare al soggetto di cui trattasi una conferma scritta della sua situazione.
MAGGIO 2014
Sentenza della Corte (Grande Camera) del 27 maggio 2014
(Zoran Spasic, causa C-129/14 PPU)
Nella sentenza in commento, la Corte ha chiarito che l’articolo 54 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen del 14 giugno 1985 tra i Paesi del Benelux, la Repubblica Federale di Germania e la Repubblica francese, relativa all'eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni (firmata a Schengen il 19 giugno del 1990, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 30 settembre 1993, n. 388), nella parte in cui subordina l’applicazione del principio del ne bis in idem alla condizione che, in caso di condanna, la pena “sia stata eseguita” o sia “in esecuzione”, risulti compatibile con l’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che pure non prevede espressamente limitazioni al principio de quo. Nell’occasione, la Corte ha precisato altresì che, nell’ipotesi in cui una pena detentiva ed pena pecuniaria siano state pronunziate a titolo principale (come nel caso del ricorrente), l’esecuzione della sola pena pecuniaria non risulti sufficiente al fine di poter considerare, ai fini sopra descritti, che la pena sia stata eseguita o sia in corso di esecuzione.
L’estrema diversifcazione delle misure di recepimento adottate dagli Stati membri rischiano di pregiudicare lo scopo ultimo della direttiva 2009/52/CE che, nell’imporre la previsione di sanzioni finanziarie, amministrative o penali nei confronti dei datori di lavoro che assumono cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, mira a ridurre il lavoro illegale e a rappresentare un incentivo per utilizzare i canali di immigrazione legali, a beneficio dei migranti, dei datori di lavoro e degli Stati membri. La Commissione europea ha programmato una serie di misure (discussione con gli Stati membri, elaborazione di orientamenti sull’attuazione pratica della direttiva, etc…) al fine di offrire sostegno agli Stati membri per garantire un livello soddisfacente di attuazione della direttiva in tutta l’UE.
La Relazione della Commissione evidenzia le molteplici carenze nel recepimento della direttiva 2009/50/CE, finalizzata ad attrarre immigrati altamente qualificati nell’UE. I problemi principali derivano da diffusi errori di recepimento, basso livello di coerenza, pochi diritti riconosciuti e barriere alla mobilità intra-UE. La Commissione europea non intende promuovere emendamenti alla normativa vigente, quanto piuttosto intensificare gli sforzi per assicurarsi che la direttiva sia recepita e correttamente attuata in tutti gli Stati membri.
Nonostante i progressi compiuti a livello europeo nella gestione dell’immigrazione, dalla relazione emerge la necessità che sia l’UE che gli Stati membri intensifichino il loro operato nel settore dell’immigrazione, dell’asilo e della gestione alle frontiere. La Commissione europea sottolinea, tra le altre cose, la necessità di rafforzare gli strumenti atti ad evitare che gli immigrati perdano la vita nel tentativo di raggiungere le coste europee.
La Commissione europea fotografa lo stato dello “Spazio Schengen” nell’arco temporale 1 novembre 2013-30 aprile 2014 e verifica l’applicazione e le violazioni dell’acquis di Schengen.
Sentenza della Corte di giustizia (Quarta Sezione) dell’8 maggio 2014
(H.N. c. Minister for Justice, Equality and Law Reform, Ireland, causa C‑604/12)
La Corte ha interpretato l’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali e la direttiva n. 83 del 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi od apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, nel senso che la circostanza per la quale, secondo l’ordinamento di un Paese membro, ogni domanda di ammissione alla protezione sussidiaria possa essere esaminata solo in seguito ad una decisione di rigetto di una richiesta d’asilo non sia, in linea di principio, incompatibile col diritto dell’Unione; tuttavia, secondo la Corte, l’effettività dei diritti sanciti dalla direttiva de qua richiede che la domanda volta al riconoscimento dello status di rifugiato e quella di ammissione alla protezione sussidiaria debbano poter essere presentate contemporaneamente e che l’esame della domanda di protezione sussidiaria avvenga entro un termine ragionevole.
APRILE 2014
La relazione evidenzia il ruolo svolto dalla Corte di giustizia dell’UE nell’applicazione della Carta dei diritti fondamentali, specie con riferimento alla recente evoluzione della giurisprudenza sull’applicabilità della Carta agli Stati membri in riferimento all’articolo 51 che ne sancisce il rispetto nei limiti dell’“attuazione del diritto dell’Unione europea”. La relazione è accompagnata da due Commission staff working document: l’uno che fornisce informazioni dettagliate sull’applicazione della Carta e illustra i problemi concreti che incontrano i cittadini (SWD(2014) 141 final part 1, part 2); l’altro che presenta i progressi compiuti nell’attuazione della Strategia 2010-2015 per la parità tra donne e uomini (SWD(2014) 142 final).
A tre anni (5 aprile 2011) dall’adozione del Quadro dell’UE per le strategie nazionali di integrazione dei Rom fino al 2020, la Commissione europea valuta i progressi intermedi compiuti in quattro settori chiave: istruzione, occupazione, assistenza sanitaria e alloggio, nonché nella lotta alla discriminazione e nell’uso dei finanziamenti. Si veda anche il Commission staff working document SWD(2014)121 final
Nell’intento di colmare un vacuum legis tra l’acquis di Schengen e le norme europee e nazionali sull’immigrazione, la Commissione presenta una proposta di regolamento al fine di disciplinare condizioni e procedure relative al rilascio di un “visto di circolazione”. Con tale termine si intende un’autorizzazione rilasciata da uno Stato membro ai fini di un soggiorno previsto sul territorio di due o più Stati membri per una durata di più di 90 giorni su un periodo di 180 giorni, a condizione che il richiedente non intenda fermarsi sul territorio dello stesso Stato membro. La proposta va esaminata congiuntamente a quella relativa alla modifica del codice comunitario dei visti (di cui sotto).
La Commissione europea presenta delle modifiche al regolamento (CE) n. 810/2009 che istituisce un codice comunitario dei visti, entrato in vigore il 5 aprile 2010. Le modifiche proposte, pur continuando a mantenere la sicurezza alle frontiere esterne e a garantire il buon funzionamento dello “spazio Schengen”, intendono facilitare gli spostamenti per i viaggiatori legittimi e semplificare il quadro normativo nell’interesse degli Stati membri, ad esempio introducendo norme più flessibili sulla cooperazione consolare. La proposta va esaminata congiuntamente a quella relativa all’introduzione di un “visto di circolazione” (di cui sopra). Si vedano i Commission staff working documents SWD(2014) 67 final e SWD(2014) 68 final. Si veda, altresì, la Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio, Una politica in materia di visti più intelligente per la crescita economica, Bruxelles, 1.04.2014, COM(2014) 165 final ed il Commission staff working document SWD(2014) 101 final
MARZO 2014
Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo “sulla politica di rimpatrio dell’Unione europea”, Bruxelles, 28 marzo 2014, COM(2014) 199 final
La Comunicazione della Commissione illustra lo sviluppo dell’acquis europeo in materia di rimpatrio degli immigrati irregolari. In particolare, essa evidenzia l’incidenza positiva della direttiva rimpatri (direttiva 2008/115/CE) sulle legislazioni e prassi nazionali. Parallelamente, emergono dalla Comunicazione gli sviluppi futuri della politica europea in materia di rimpatrio, ruotanti intorno ad alcuni obiettivi principali, quali: rispetto dei diritti fondamentali; procedure eque ed efficaci; riduzione dei casi in cui i migranti rimangono privi di un chiaro status giuridico; promozione delle partenze volontarie; promozione del reinserimento e delle alternative al trattenimento.
Rapporto della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle Regioni “Towards more democratic European Parliament elections”, Brussels, 27 marzo 2014, COM(2014) 196 final
La Commissione europea fa il punto sullo stato di attuazione delle raccomandazioni contenute nel documento 2013/142/CE del 12 marzo 2013 e vertenti: a) sul rafforzamento della trasparenza delle elezioni al Parlamento europeo e della legittimazione democratica del processo decisionale nell’UE; b) su una maggiore efficienza delle elezioni. Il rapporto è basato sulle informazioni rese dagli Stati membri, nonché su quelle ottenute da esperti nazionali sulle elezioni e da partiti politici europei.
Sentenza della Corte (Seconda Sezione) del 27 marzo 2014
(Ulrike Elfriede Grauel Rüffer c. Katerina Pokorná, causa C‑322/13)
Nella sentenza in commento, la Corte ha sancito in via pregiudiziale che la corretta interpretazione degli articoli 18 e 21 TFUE, sancenti rispettivamente il divieto di discriminazioni fondate sulla nazionalità ed il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio dell’Unione, osti ad una normativa nazionale (come quella in questione nel procedimento principale) secondo la quale, nei processi civili incoati dinanzi ai giudici di uno Stato membro che abbiano sede in un determinato ente locale, il diritto di utilizzare una lingua diversa da quella nazionale sia riconosciuto esclusivamente ai cittadini di tale Stato che siano residenti nel suddetto ente locale e non anche, invece, a tutti i cittadini dell’Unione che, dinanzi i medesimi uffici, intendano agire o resistere in giudizio nello stesso idioma.
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio “A new EU Framework to strengthen the Rule of Law”, Brussels, 19 marzo 2014, COM(2014) 158 final/2
La Commissione definisce una “meccanismo di preallarme”, preventivo rispetto ai meccanismi previsti dall’articolo 7 TUE e altresì complementare alla procedura di infrazione ex articolo 258 TFUE, al fine di sanzionare Stati membri che violano in maniera sistemica lo Stato di diritto, ossia i principi giuridici che consentono di difendere i valori fondamentali dell’UE, come l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge o il corretto esercizio dei poteri pubblici. Tale meccanismo è strutturato in tre fasi: valutazione della Commissione; raccomandazione della Commissione e follow-up alla raccomandazione della Commissione.Si vedano anche gli allegati nn. 1 e 2 alla Comunicazione.
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, alla Banca Centrale Europea, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni, del 17 marzo 2014, The 2014 EU Justice Scoreboard, COM(2014) 155 final
Il 17 marzo 2014 la Commissione europea ha pubblicato la seconda edizione del Quadro di valutazione europeo della giustizia 2014, che fornisce dati preziosi per la valutazione dell’efficienza dei sistemi giudiziari degli Stati membri dell’UE. Tali dati sono stati in larga parte forniti dalla Commissione per la valutazione dell’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (CEPEJ).
Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 12 marzo 2014
(S. c. Minister voor Immigratie, Integratie en Asiel e Minister voor Immigratie, Integratie en Asiel c. G., causa C-457/12)
Nell’ipotesi in cui un cittadino dell’UE svolga, nell’ambito di un contratto di lavoro, attività professionali in uno Stato membro diverso da quello in cui risiede, lo Stato membro di origine di suddetto cittadino non sarà vincolato dalla direttiva 2004/38/CE a concedere al suo familiare un diritto di soggiorno derivato. Bensì, la concessione di un diritto di soggiorno derivato al familiare di tale cittadino dell’UE sarà imposta ai sensi dell’articolo 45 TFUE, qualora sia necessaria al fine di assicurare al cittadino europeo l’esercizio effettivo della libera circolazione.
Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 12 marzo 2014
(O. c. Minister voor Immigratie, Integratie en Asiel e Minister voor Immigratie, Integratie en Asiel c. B., causa C-456/12)
Le condizioni per la concessione di un diritto di soggiorno derivato al cittadino di un paese terzo che sia familiare di un cittadino dell’Unione, nello Stato membro di origine di quest’ultimo dove egli fa ritorno dopo aver soggiornato in un altro Stato membro, non devono in linea di principio essere più severe rispetto a quelle previste dalla direttiva 2004/38/CE applicabili nell’ipotesi in cui un cittadino, avvalendosi del proprio diritto di libera circolazione, si sia stabilito in uno Stato membro diverso da quello di cui possiede la cittadinanza.
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale, al Comitato delle Regioni, “An open and secure Europe: making it happen”, Strasbourg, 11 marzo 2014, COM(2014) 154 final
La Commissione ha adottato una comunicazione sul futuro programma nel settore degli Affari interni, che mira a massimizzare i benefici derivanti dalle offerte migrazioni, specie in considerazione dell’invecchiamento della popolazione e il declino della forza lavoro, e a favorire il profilo della integrazione dei migranti. L’ulteriore sviluppo della politica comune in materia di immigrazione e di asilo e dell’approccio globale all’immigrazione è associato, altresì, ai profili di rafforzamento della sicurezza interna dell’Europa. La Comunicazione prelude alla definizione degli orientamenti strategici che saranno definiti nel futuro programma pluriennale “post-Stoccolma”. Si veda anche il Commission staff working document
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale, al Comitato delle Regioni “The EU Justice Agenda for 2012 – Strengthening Trust, Mobility and Growth within the Union”, Strasbourg, 11 marzo 2014, COM(2014) 144 final
Dopo aver evidenziato i progressi compiuti dalla politica di giustizia dell’UE, la Commissione europea ha sottolineato la necessità di progredire ulteriormente nella realizzazione, entro il 2020, di uno “spazio comune europeo di giustizia” pienamente operativo, basato sulla fiducia reciproca, la mobilità e la crescita economica.
FEBBRAIO 2014
La Relazione della Commissione evidenzia i passi compiuti verso una politica esterna più consolidata e coerente in materia di migrazione e asilo, nell’ambito dell’approccio globale in materia di migrazione e mobilità, specie nelle relazioni con i paesi del Mediterraneo meridionale e con quelli del partenariato orientale. Altresì la Commissione analizza gli aspetti e gli strumenti principali sui quali è necessario continuare a lavorare, ad esempio riesaminando i processi di dialogo in corso con i paesi terzi, al fine di accrescerne l’efficacia, l’operatività e l’equilibrio in termini di priorità tematiche.
Sentenza della Corte di giustizia (Quarta Sezione) del 27 febbraio 2014
(Federaal agentschap voor de opvang van asielzoekers c. Selver Saciri ed altri, causa C‑79/13)
La Corte ha escluso che la direttiva 2003/9/CE, recante norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri, osti ad una previsione nazionale in virtù della quale, in caso di saturazione delle strutture d’alloggio all’uopo destinate, le autorità interne possano rinviare i richiedenti asilo verso organismi facenti capo al sistema generale di assistenza pubblica, affinché questi ultimi concedano loro gli aiuti finanziari necessari. Tali aiuti, tuttavia, debbono essere erogati, secondo la Corte, sin dal momento della presentazione della domanda d’asilo e debbono risultare in ogni caso conformi alle norme minime sancite dalla direttiva de qua. La misura di detti aiuti deve essere pertanto sufficiente a garantire un livello di vita dignitoso ed adeguato alla salute dei richiedenti, tale da consentire loro, in particolare, di disporre di un alloggio; tanto anche e soprattutto in ragione dell’esigenza di assicurare che i figli minori dei richiedenti asilo convivano con i genitori, sicché possa concretamente garantirsi l’unità del nucleo familiare.
GENNAIO 2014
Sentenza della Corte (Quarta Sezione) del 30 gennaio 2014
(Aboubacar Diakité c. Commissaire général aux réfugiés et aux apatrides, causa C‑285/12)
Nella sentenza in commento è venuta in questione l’interpretazione della direttiva 2004/83/CE, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta. Com’è noto, la direttiva ritiene ammissibile alla protezione sussidiaria «il cittadino di un Paese terzo o apolide che non possied[a] i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussist[a]no fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno». Orbene, nell’arresto in commento la Corte è stata interrogata in via pregiudiziale proprio in merito all’interpretazione del requisito della gravità del danno, con riferimento specifico all’ipotesi prevista dall’art. 15, lett. c), della direttiva, che ritiene soddisfatta la condizione in questione laddove sussista una «minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale». Al riguardo, la Corte ha chiarito che la locuzione di cui si discute debba essere oggetto di un’interpretazione autonoma rispetto al diritto internazionale umanitario, in particolare rispetto alle quattro Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949: secondo i giudici di Lussemburgo, infatti, il legislatore dell’Unione ha auspicato di concedere la protezione sussidiaria non soltanto in caso di “conflitto armato internazionale” e “conflitto armato che non present[i] carattere internazionale”, così come definiti dal diritto internazionale umanitario, ma, altresì, in caso di conflitto armato interno, purché tale conflitto sia caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata. In particolare, l’esistenza di un conflitto armato interno potrà portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente laddove, eccezionalmente, si ritenga che gli scontri tra le forze governative di uno Stato ed uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave ed individuale per il richiedente la protezione sussidiaria, in quanto il grado di violenza indiscriminata che caratterizzi gli scontri raggiunga un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi di ritenere che un civile, rinviato nel Paese in questione, correrebbe, per la sua sola presenza, il rischio effettivo di subire la detta minaccia. A questo riguardo, la Corte ha precisato che, tanto più il richiedente sia eventualmente in grado di dimostrare di essere colpito in modo specifico a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale, tanto meno elevato sarà il grado di violenza indiscriminata richiesto affinché egli possa beneficiare della protezione sussidiaria. In tale contesto, secondo i Giudici europei, non è necessario procedere ad una valutazione specifica dell’intensità degli scontri o dell’organizzazione delle contrapposte forze armate né è necessario che il conflitto si caratterizzi per una durata determinata, rilevando al contrario esclusivamente l’effettivo, concreto bisogno di protezione internazionale del richiedente.
Sentenza della Corte (Quarta sezione) del 16 gennaio 2014
(Flora May Reyes c. Migrationsverket, causa C-423/12)
Affinché il discendente diretto di un cittadino dell’Unione, di età pari o superiore a 21 anni, possa essere considerato “a carico” dello stesso ai sensi dell’articolo 2, punto 2, lettera c), della direttiva 2004/38/CE ed ottenere, dunque, un permesso di soggiorno nello Stato membro ospitante, deve essere dimostrata l’esistenza di una reale situazione di dipendenza. Per contro, la disposizione impedisce che la normativa nazionale imponga l’ulteriore criterio di dimostrare le ragioni di tale dipendenza.
Sentenza della Corte (Seconda sezione) del 16 gennaio 2014
(Secretary of State for the Home Department c. M.G., causa C-400/12)
Nel computo del periodo di 5 anni di soggiorno legale e continuato assieme al cittadino dell’Unione nello Stato membro ospitante previsto dall’articolo 16, par. 2, della direttiva 2004/38/CE (disposizione che consente al cittadino di un Paese terzo, familiare di un cittadino dell’Unione europea, di ottenere un diritto di soggiorno permanente) non possano utilmente essere presi in considerazione i periodi di detenzione nello Stato membro ospitante del cittadino di Paese terzo, familiare del cittadino europeo. Inoltre, secondo la Corte, la detenzione configura un ipotesi di “interruzione” del suddetto periodo di 5 anni, tale che il periodo precedente e quello successivo alla detenzione non possano essere tra loro cumulabili.
Sentenza della Corte (Seconda Sezione) del 16 gennaio 2014
(Nnamdi Onuekwere c. Secretary of State for the Home Deparment, causa C-378/12)
Secondo la Corte, il periodo di detenzione cui è soggetto un cittadino dell’Unione va ad interrompere la continuità del soggiorno e non può, in linea di principio, essere preso in considerazione ai fini del calcolo dei 10 anni di soggiorno di cui all’articolo 28, par. 3, lett. a), della direttiva 2004/38/CE ai fini dell’attivazione della tutela rafforzata contro l’allontanamento. Inoltre, tale periodo decennale va calcolato a ritroso, a partire dalla data della decisione di allontanamento di tale persona. Resta comunque salva la possibilità che le autorità nazionali tengano conto della circostanza che il cittadino europeo abbia soggiornato nello Stato membro ospitante durante i dieci anni precedenti la sua detenzione, nonché che esse prendano in considerazione i periodi di detenzione nella valutazione complessiva del caso di specie al fine di accordare o meno la protezione rafforzata.
DICEMBRE 2015
Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 10 dicembre 2013
(Shamso Abdullahi c. Bundesasylamt, causa C‑394/12)
Nella sentenza in commento, la Corte, interrogata in via pregiudiziale, ha chiarito che l’art. 19, par. 2, del regolamento n. 343/2003, recante criteri e meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo, debba essere interpretato nel senso che, nelle circostanze in cui uno Stato abbia accettato la presa in carico di un richiedente asilo in applicazione del criterio di cui all’art. 10, par. 1, del suddetto regolamento (vale a dire quale Stato membro di primo ingresso del richiedente asilo nel territorio dell’Unione europea), tale richiedente possa contestare la scelta del suddetto criterio soltanto deducendo l’esistenza, nel Paese in questione, di carenze sistemiche nella procedura d’asilo od in merito alle condizioni di accoglienza, di talché si possa temere la sussistenza di seri e comprovati motivi che consentano di supporre che questi corra concretamente il rischio di subire trattamenti inumani o degradanti, vietati ai sensi dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Sentenza della Corte (Quinta Sezione) del 12 dicembre 2013
(Frédéric Hay c. Crédit agricole mutuel de Charente-Maritime et des Deux-Sèvres, causa C‑267/12)
Nell'arresto de quo, i giudici europei, con decisione di natura formalmente interpretativa, hanno censurato la normativa nazionale francese (nella specie, la disposizione di un contratto collettivo di lavoro) ai termini della quale, laddove la normativa nazionale dello Stato membro interessato non consenta alle persone del medesimo sesso di sposarsi, ad un lavoratore dipendente unito in patto civile di solidarietà con persona del medesimo sesso sianonegati benefici – segnatamente giorni di congedo straordinario e premio stipendiale – concessi ai dipendenti in occasione del loro matrimonio, sempreché, alla luce della finalità e dei presupposti di concessione di tali benefici, detto lavoratore si trovi in una situazione analoga a quella di un lavoratore che contragga matrimonio. Tanto alla luce dell’articolo 2, par. 2, lettera a), della direttiva 2000/78, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, e del divieto ivi previsto di discriminazioni indirette, ossia di quelle discriminazioni derivanti da criteri o prassi che, pur risultando apparentemente neutri, risultino suscettibili di mettere in posizione di particolare svantaggio le persone che, come nella specie, abbiano una determinata tendenza sessuale.
Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 19 dicembre 2013
(Rahmanian Koushkaki c. Bundesrepublik Deutschland, causa C‑84/12)
La Corte, interrogata in via pregiudiziale in merito all'interpretazione degli articoli 21, par. 1, e 32, par. 1, del cd. codice comunitario dei visti di cui al regolamento 2009/810, ha escluso che le autorità competenti degli Stati membri possano fondare una decisione di diniego di rilascio di un visto uniforme su di un motivo diverso da quelli espressamente previsti dalle disposizione del "codice". In quest'ambito, tuttavia, le autorità nazionali dispongono di un ampio margine di discrezionalità per quanto riguarda le condizioni di applicazione di tali disposizioni e la valutazione dei fatti rilevanti. Nello specifico, secondo i Giudici di Lussemburgo, l’obbligo di rilasciare un visto uniforme presuppone, tra l'altro, che non vi siano "ragionevoli dubbi" circa l’intenzione del richiedente di lasciare il territorio degli Stati membri prima della scadenza del visto richiesto, considerata la situazione generale del Paese di residenza del soggetto e le caratteristiche sue proprie. Il riconoscimento di un ampio margine di discrezionalità in capo alle autorità nazionali ha consentito alla Corte di pronunciarsi altresì nel senso che la corretta interpretazione del diritto dell'Unione non osti ad una disposizione nazionale, quale quella controversa nel procedimento principale, la quale preveda che, allorché ricorrano le condizioni di rilascio previste dal regolamento, le autorità competenti abbiano il potere e non l'obbligo di rilasciare un visto uniforme.
NOVEMBRE 2013
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle Regioni:
Libera circolazione dei cittadini europei e dei loro familiari: Cinque azioni per fare la differenza, Brussels, 25.11.2013, COM(2013) 0837 fin.
La Commissione europea promuove cinque azioni concrete per rafforzare la libera circolazione delle cittadini dell’UE e dei loro familiari, quale libertà fondamentale rappresentante un elemento chiave del processo di integrazione europea. In particolare, le cinque azioni consistono nel coadiuvare gli Stati in tema di: contrasto aimatrimoni di convenienza; applicazione di norme di coordinamento nel settore della sicurezza sociale; sfide riguardanti l’inclusione sociale; scambio di best practices tra le autorità locali; applicazione sul campo delle norme sulla libera circolazione da parte delle autorità locali.
Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 14 novembre 2013
(Bundesrepublik Deutschland c. Kaveh Puid, causa C‑4/11)
La Corte interpreta l’articolo 3, paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 343/2003 del Consiglio, del 18 febbraio 2003, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo. In particolare, Essa afferma che gli Stati membri sono tenuti a non trasferire un richiedente asilo verso lo Stato membro competente in base ai criteri enunciati nel capo III del regolamento quando non possono ignorare che le carenze sistemiche della procedura di asilo e delle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in tale Stato membro costituiscono motivi seri e comprovati di credere che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Resta ferma la facoltà di esaminare esso stesso la domanda, di proseguire l’esame dei criteri di detto capo per verificare se un altro Stato membro possa essere identificato come competente in base ad uno di tali criteri o, in mancanza, in base all’articolo 13 del medesimo regolamento.
Sentenza della Corte (Quarta Sezione) del 7 novembre 2013
(Minister voor Immigratie en Asiel c. X e Y e Z c. Minister voor Immigratie en Asiel, cause riunite da C‑199/12 a C‑201/129)
Nell’interpretare l’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2004/83/CE, la Corte di giustizia afferma che i richiedenti asilo omosessuali possono configurare un particolare gruppo sociale, esposto al rischio di persecuzione a causa dell’orientamento sessuale. Inoltre, l’esistenza, nel paese d’origine, di una pena detentiva per atti omosessuali qualificati come reato può, di per sé, costituire un atto di persecuzione, purché tale pena trovi effettivamente applicazione.
OTTOBRE 2013
Sentenza della Corte (Terza Sezione) del 24 ottobre 2013
(Andreas Ingemar Thiele Meneses c. Region Hannover, causa C-220/12)
La Corte di giustizia, interrogata in via pregiudiziale, interpretando gli articoli 20 e 21 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, ha censurato la normativa nazionale tedesca nella parte in cui questa subordina, in linea di principio, la concessione di un aiuto alla formazione erogato per studi svolti in un altro Stato membro al requisito di aver stabilito il proprio domicilio permanente nel territorio nazionale. Parimenti incompatibile col diritto dell'Unione è stata dalla Corte considerata la normativa tedesca nella parte in cui essa prevede che, qualora il richiedente non abbia stabilito il proprio domicilio permanente sul territorio nazionale, la concessione di un aiuto alla formazione all'estero sia dovuta unicamente quando "circostanze particolari" lo giustifichino. Una normativa di tal genere, sebbene risulti indistintamente applicabile ai cittadini tedeschi come agli altri cittadini dei Paesi membri, comporta infatti, nell'orientamento dei Giudici di Lussemburgo, una restrizione al diritto di libera circolazione e di soggiorno di debbono godere tutti i cittadini dell'Unione europea.
Leggi "Brevi note sulle competenze regionali e locali con riferimento allo Spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia", di Marco Casagrande.
Sentenza della Corte (Terza Sezione) del 24 ottobre 2013
(Samantha Elrick c. Bezirksregierung Köln, causa C-275/12)
La Corte ha chiarito che gli articoli 20 e 21 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea debbano essere interpretati nel senso che essi ostino ad una normativa nazionale, come quella in questione nel caso di specie, che subordini la concessione di un sussidio in favore di un cittadino residente sul territorio dello Stato di appartenenza, al fine di agevolare i suoi studi in un altro Stato membro, alla condizione che tali studi siano certificati da un diploma professionale equivalente a quello rilasciato da una scuola professionale con sede nello Stato erogatore ed al termine di un corso di durata almeno pari a due anni, laddove invece un analogo sussidio sarebbe stato concesso all'interessato qualora questi avesse deciso di svolgere studi di tipo equivalente nel proprio Stato anche nel caso in cui essi avessero avuto una durata inferiore ai due anni.
Sentenza della Corte (Quarta Sezione) del 17 ottobre 2013
(Michael Schwarz c. Stadt Bochum, causa C‑291/12)
La Corte di giustizia è chiamata a valutare la validità del Regolamento n. 2252/2004 che ha introdotto l'obbligo del rilevamento delle impronte digitali per chi richiede il passaporto. In particolare, Essa ha valutato l'esistenza di un fondamento giuridico adeguato e la possibile esistenza di un vizio di procedura. Inoltre, la Corte ha valutato la possibile violazione, da parte dell'articolo 1, paragrafo 2, di tale regolamento del diritto alla tutela dei dati personali sancito, da un lato, dall'articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea relativo al diritto alla vita privata e, dall'altro, in modo esplicito, dall'articolo 8 della stessa. Dall'esame della questione sollevata, la Corte non ha ritenuto sussistente alcun vizio inficiante la validità del Regolamento.
Sentenza della Corte (Seconda Sezione) del 10 ottobre 2013
(Adzo Domenyo Alokpa, Jarel Moudoulou, Eja Moudoulou c. Ministre du Travail, de l'Emploi et de l'Immigration, causa C‑86/12)
La Corte si pronuncia nel senso di ritenere che gli articoli 20 e 21 TFUE lasciano impregiudicata la possibilità per gli Stati membri di negare un diritto di soggiorno derivato ad un cittadino di Paese terzo familiare di un cittadino dell'Unione europea. Qualora, come nel caso di specie, i cittadino europeo sia un bambino in tenera età a carico esclusivo del familiare, spetterà valutare al giudice del rinvio se il diniego di concessione del diritto di soggiorno al familiare non privi il cittadino delgodimento del nucleo essenziale dei diritti conferiti dallo status di cittadino dell'Unione europea.
SETTEMBRE 2013
Sentenza della Corte di giustizia (Seconda Sezione) del 26 settembre 2013
(HK Danmark c. Experian A/S, causa C‑476/11)
La Corte ha chiarito, nella sentenza in commento, che il principio di non discriminazione in funzione dell’età sancito dall’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ed attuato dalla direttiva 2000/78, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro ed, in particolare, gli articoli 2 e 6, par. 1, della medesima, debbano essere interpretati nel senso che non ostino alla vigenza di un regime pensionistico professionale in forza del quale un datore di lavoro versi, come parte della retribuzione, contribuiti pensionistici progressivi in funzione dell’età, purché la disparità di trattamento in ragione dell’età che ne deriva sia appropriata e necessaria a conseguire un obiettivo legittimo, circostanza che spetta al giudice nazionale verificare.
L'articolo 7, paragrafo 1, lett. b) della direttiva 2004/38/CE consente agli Stati membri di fissare, quale condizione al diritto di soggiorno superiore a tre mesi per un cittadino dell'Unione europea, la disponibilità di risorse economiche sufficienti affinché il cittadino non divenga un onere per il sistema di assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il suo soggiorno. Secondo la Corte, contrasta con tale norma la disposizione nazionale - quale quella austriaca - che anche per il periodo successivo ai primi tre mesi di soggiorno esclude in qualsiasi circostanza e in maniera automatica la concessione di una prestazione quale l'integrazione compensativa poiché il richiedente non soddisfa le condizioni per beneficiare di un diritto di soggiorno legale, condizioni basate sulla valutazione di un unico criterio ai fini della valutazione dell'"onerosità" per il sistema sociale dello Stato membro ospitante.
I Giudici di Lussemburgo hanno sancito che l'articolo 11, par. 2, della direttiva 2008/11, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare, osti ad una disposizione nazionale (nella specie, la legge tedesca dettata in materia di soggiorno, lavoro ed integrazione degli stranieri nel territorio federale) che subordini la limitazione della durata di un divieto d'ingresso - altrimenti valevole sine die - alla presentazione da parte del soggetto interessato di una specifica domanda volta a ottenere la concessione del suddetto "beneficio". Sulla base del presupposto per cui la finalità della direttiva in questione - ed in particolare del relativo art. 11, par. 2 - è quella di scongiurare che, fatti salvi i casi specifici contemplati dalla medesima disposizione, la durata di divieto d'ingresso non ecceda i cinque anni, la Corte ha ritenuto che il diritto dell'Unione osti altresì a che la violazione di un divieto d'ingresso e di soggiorno nel territorio di uno Stato membro, emesso oltre cinque anni prima della data di reingresso del soggetto in tale territorio o dell'entrata in vigore della normativa nazionale che recepisca tale direttiva, possa comportare la comminazione di una sanzione penale; tanto a meno che tale soggetto non costituisca una grave minaccia per l'ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale. La Corte di giustizia ha ritenuto infine che la norma de qua osti ad una previsione nazionale in virtù della quale un provvedimento di espulsione o di allontanamento anteriore di cinque o più anni rispetto al periodo compreso tra la data in cui la direttiva avrebbe dovuto essere recepita e la data in cui tale recepimento sia effettivamente avvenuto, possa successivamente di nuovo servire per fondare azioni penali, allorché tale provvedimento fosse basato su una sanzione penale a norma dell'articolo 2, paragrafo 2, lettera b), di detta direttiva e tale Stato membro avesse fatto uso della facoltà prevista da tale disposizione.
La Corte, investita nell'ambito di una procedura pregiudiziale d'urgenza, ha specificato come il diritto dell'Unione, ed in particolare l'articolo 15, paragrafi 2 e 6, della direttiva 2008/115, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare, debba essere interpretato nel senso che, quando nell'ambito di un procedimento amministrativo la proroga di una misura di trattenimento sia stata adottata in violazione del diritto di essere sentiti, il giudice nazionale chiamato a valutare la legittimità di tale decisione possa ordinare la cessazione del trattenimento soltanto qualora ritenga che, tenuto conto di tutte le circostanze di fatto e di diritto del caso di specie, tale violazione abbia effettivamente privato colui che la invoca della possibilità di difendersi più efficacemente, di modo che il procedimento amministrativo in questione avrebbe potuto comportare un risultato diverso.
AGOSTO 2013
La Relazione della Commissione ha ad oggetto i controlli cui sono sottoposti i minori che attraversano legalmente le frontiere esterne degli Stati membri. Essa inerisce al principio "una persona-un passaporto" - introdotto dal Regolamento (CE) n. 444/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio - secondo il quale i passaporti e i documenti di viaggio sono rilasciati come documenti individuali, mentre non è più possibile rilasciare parra porti familiari o collettivi. L'applicazione di tale principio mira a rendere più sicuri gli attraversamenti delle frontiere da parte dei minori e a tutelare i loro diritti nonché a contrastare fenomeni quali il rapimento e la tratta dei minori. La Commissione non rileva particolari problemi nell'applicazione del suddetto principio e nella Relazione in oggetto individua esempi di buone pratiche che potrebbero agevolare il lavoro degli operatori ai valichi di frontiera.
LUGLIO 2013
Secondo la Corte, le norme del TFUE sulla cittadinanza europea e la libera circolazione delle persone (articoli 20 e 21 del TFUE) impediscono che la normativa di uno Stato membro subordini la concessione di un sussidio alla formazione per studi compiuti in un altro Stato membro ad un requisito unico quale quello che impone al richiedente di aver posseduto la residenza stabile sul territorio nazionale per un periodo ininterrotto non inferiore a tre anni prima dell'inizio degli studi.
Sentenza della Corte di giustizia (Quinta Sezione) del 4 luglio 2013 (Simone Gardella c. Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), causa C-233/12)
La sentenza della Corte di giustizia censura la normativa italiana in tema di ricongiunzione dei periodi assicurativi dei lavoratori ai fini previdenziali. In particolare, si configura violazione degli articoli 45 e 48 TFUE laddove la normativa interna non consente ai suoi cittadini che siano dipendenti di un'organizzazione internazionale situata nel territorio di un altro Stato membro (nel caso di specie l'Ufficio europeo dei brevetti) di trasferire al regime previdenziale di tale organizzazione il capitale che rappresenta i diritti a pensione maturati precedentemente dai cittadini in Italia, in assenza di un accordo tra lo Stato italiano e l'organizzazione internazionale circa la possibilità di tale trasferimento. Altresì viola l'articolo 45 TFUE la normativa interna che non consenta di prendere in considerazione i periodo di lavoro che un cittadino dell'UE ha compiuto presso un'organizzazione internazionale situata in un altro Stato membro ai fini del riconoscimento del diritto alla pensione di vecchiaia.
GIUGNO 2013
Direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale
Nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea del 29 giugno 2013 sono state pubblicate le 2 direttive e i due regolamenti che costituiscono un pacchetto di riforme finalizzato alla creazione di nuovo sistema comune europeo d'asilo. Tra gli elementi di maggiore novità rispetto al precedente sistema si segnalano: l'introduzione di maggiori garanzie nel processo di esame delle richieste, tra cui la previsione dell'obbligo di formazione per le autorità; la regolamentazione dell'uso della detenzione, considerata quale misura eccezionale; la maggior tutela per le persone rientranti in categorie vulnerabili attraverso la previsione di procedure di identificazione. Tali aspetti sono stati, peraltro, sottolineati positivamente dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR).
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, Progressi nell'attuazione delle strategie nazionali di integrazione dei Rom, Brussels, 26.06.2013, COM(2013) 454 final
La Comunicazione della Commissione ha ad oggetto la valutazione delle strategie nazionali di integrazione dei Rom che gli Stati membri devono adottare e sviluppare nel "Quadro dell'UE per le strategie nazionali di integrazione dei Rom" (Comunicazione del 5.04.2011, COM(2011) 173 def.). In particolare, essa si concentra sulle precondizioni strutturali indispensabili per assicurare un'attuazione efficace delle strategie, tra le quali: cooperare con le autorità locali e regionali e con la società civile;stanziare risorse finanziare proporzionate; monitorare e consentire l'adeguamento della strategia; combattere la discriminazione in modo convincente e istituire punti di contatto nazionali per l'integrazione dei Rom. Dall'analisi della Commissione risultano ancora mancanti delle condizioni preliminari che rendono i progressi concreti molto lenti. Pertanto, invita all'adozione di ulteriori azioni, allegando anche esempi positivi di azioni correlate alle precondizioni strutturali di attuazione.
Proposta di raccomandazione del Consiglio sull'effettività delle misure di integrazione dei rom negli Stati membri. Brussels, 26.06.2013, COM(2013) 460 final
La proposta di raccomandazione si inserisce nel "Quadro dell'UE per le strategie nazionali di integrazione dei Rom" (Comunicazione del 5.04.2011, COM(2011) 173 def.). Suo scopo è fornire agli Stati membri orientamenti volti a rendere più efficaci le misure per l'integrazione dei Rom e favorire l'attuazione delle strategie nazionali di integrazione di quelle popolazioni o degli insiemi di misure nazionali dirette a migliorare la loro situazione, secondo le difficoltà affrontate dagli Stati membri in funzione delle rispettive dimensioni e situazioni delle loro popolazioni Rom. Più nel dettaglio, la raccomandazione prevede: un'azione specifica e mirata, fondata sulle migliori prassi, per accrescere l'integrazione dei Rom; questioni orizzontali essenziali per mettere in pratica le politiche di integrazione dei Rom e assicurarne la sostenibilità; principi generali che prevedono un'assegnazione trasparente e adeguata dei fondi.
Regolamento (UE) n. 610/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013 , che modifica il regolamento (CE) n. 562/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, che istituisce un codice comunitario relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone (codice frontiere Schengen), la convenzione di applicazione dell'accordo di Schengen, i regolamenti (CE) n. 1683/95 e (CE) n. 539/2001 del Consiglio e i regolamenti (CE) n. 767/2008 e (CE) n. 810/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio
Quale ulteriore sviluppo dell'acquis di Schengen, il presente Regolamento è finalizzato principalmente ad apportare modifiche tecniche alle normative esistenti. Alcune di esse, quale ad esempio il calcolo della durata autorizzata dei soggiorni brevi nell'Unione, sono state necessitate dalla giurisprudenza europea formatasi sul punto (si veda la causa C-241/05 Nicolae Bot c. Préfet du Val-de-Marne). Tra le modifiche di rilievo, l'inserimento dell'articolo 3 bis nel Regolamento (CE) n. 562/2006 che prevede espressamente che in sede di sua applicazione, gli Stati membri agiscano nel rispetto dei diritti fondamentali contenuti, tra gli altri, nella Carta dei diritti fondamentali dell'UE.
Sentenza della Corte di giustizia (Quarta Sezione) del 20 giugno 2013
(causa C-7/12, Riežniece c. Zemkopības ministrija, Lauku atbalsta dienests)
Nella sentenza in commento, la Corte ha chiarito che la direttiva 76/207, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione ed alla promozione professionale e le condizioni di lavoro, come modificata dalla direttiva 2002/73, e l'accordo quadro sul congedo parentale, contenuto nell'allegato della direttiva 96/34, debbano essere interpretati nel senso che, ai fini della valutazione dei lavoratori, nel contesto della soppressione di posti di lavoro pubblico dovuta alle difficoltà economiche statuali, ostino a che un lavoratore che abbia fruito di un congedo parentale sia valutato in sua assenza sulla base di principi e criteri di valutazione che lo pongano in una situazione svantaggiosa rispetto a quei lavoratori che, al contrario, non abbiano fruito di un congedo del genere. Secondo la Corte, il giudice nazionale ‒ chiamato a verificare se, in concreto, sia stata posta in essere una tale discriminazione ‒ deve sincerarsi in particolare del fatto che la suddetta valutazione riguardi l'insieme dei lavoratori potenzialmente coinvolti dalla misura di soppressione, che essa sia fondata su criteri rigorosamente identici a quelli che si applicano ai lavoratori in servizio attivo e che per l'applicazione di tali criteri non sia necessaria la presenza fisica dei lavoratori in congedo parentale. Nel caso di specie, i giudici di Lussemburgo hanno ritenuto inoltre che la normativa europea in questione osti altresì a che una lavoratrice, che sia trasferita verso altro posto di lavoro al termine del suo congedo parentale e che, in esito alla valutazione di cui sopra, venga licenziata perché tale nuovo posto di lavoro sia poi soppresso, qualora per il datore di lavoro non risulti impossibile farla tornare sul suo precedente posto di lavoro o qualora il lavoro assegnatole non sia equivalente o analogo e corrispondente al suo contratto o al suo rapporto di lavoro; tanto, in particolare, allorquando, al momento del trasferimento, il datore di lavoro sappia che il nuovo posto di lavoro sia destinato ad essere soppresso, circostanza che spetta ovviamente al giudice nazionale appurare.
Sentenza della Corte di giustizia (Quinta Sezione) del 20 giugno 2013
(causa C-20/12, Giersch e a. c. État du Grand-Duché de Luxembourg)
La Corte ha chiarito che l'art. 7, par. 2, del regolamento n. 1612/68, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità, come modificato dalla direttiva 2004/38/CE, debba essere interpretato nel senso che esso osti, in linea di principio, ad una normativa nazionale ‒ come quella in questione nel caso di specie ‒ che subordini la concessione di un sussidio economico per il compimento di studi superiori al requisito della residenza dello studente nello Stato membro medesimo ed operi pertanto una disparità di trattamento, costitutiva di una discriminazione indiretta, tra le persone residenti nello Stato membro di cui trattasi e quelle che, senza risiedere in detto Stato membro, siano figli di lavoratori frontalieri svolgenti un'attività nello Stato membro stesso. Se è pur vero - si legge nella sentenza in commento - che la finalità di incrementare la percentuale dei residenti titolari di un diploma di istruzione superiore, perseguita in ragione dello scopo di promuovere lo sviluppo dell'economia statuale, costituisca un obiettivo legittimo ed astrattamente idoneo a giustificare tale disparità di trattamento e che il requisito della residenza possa considerarsi utile a garantire la realizzazione di tale obiettivo, i giudici di Lussemburgo hanno tuttavia ritenuto che un siffatto requisito ecceda quanto necessario ai fini del raggiungimento del fine perseguito, in considerazione del fatto che esso impedisce di tener conto di altri elementi potenzialmente rappresentativi del reale grado di collegamento esistente tra il soggetto richiedente il sussidio e la società od il mercato del lavoro dello Stato membro interessato, quali ad esempio il fatto che uno dei genitori che continua a provvedere al mantenimento dello studente sia un lavoratore frontaliero, sia stabilmente occupato in tale Stato membro ed abbia ivi già lavorato per un significativo periodo di tempo.
Sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 4 giugno 2013
(causa C-300/11, ZZ c. Secretary of State for the Home Department)
La Corte, interrogata in via pregiudiziale in merito all'interpretazione degli articoli 27, 30 e 31 della direttiva 2004/38/CE, ha chiarito che le suddette disposizioni, interpretate alla luce dell'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali, impongano al giudice nazionale investito della questione di assicurarsi che la mancata comunicazione all'interessato, da parte dell'autorità nazionale competente, della motivazione circostanziata e completa sulla quale sia fondata la decisione di diniego d'ingresso nel territorio nazionale sia limitata allo stretto necessario e che, in ogni caso, sia comunicata all'interessato la sostanza di detti motivi in una maniera che tenga nel debito conto la necessaria segretezza degli elementi di prova.
Comunicazione della Commissione al Parlamento e al Consiglio, Quarta relazione annuale sull'immigrazione e all'asilo (2012), Bruxelles, 17.06.2013, COM(2013) 0422
La Relazione si basa sulle valutazioni politiche della Commissione ed è integrata da un documento di lavoro dei servizi della Commissione comprensivo di un allegato contenente dati statistici sugli sviluppi, sia a livello UE che nazionale, delle politiche di immigrazione e di asilo. A livello di UE, nel 2012 sono state proposte, negoziate e completate importanti iniziative. In particolare, si segnala lo sviluppo dei negoziati sulle direttive "procedure", "lavoratori stagionali" e "trasferimenti intrasocietari". L'approccio globale in materia di migrazione e mobilità ha continuato a fungere da quadro generale per la politica estera dell'UE nel settore della migrazione e dell'asilo. Invece, uno dei punti critici rilevati dalla Commissione consiste nella carenza di sostegno finanziario, che potrebbe essere fronteggiato anche per effetto dell'approvazione delle proposte di regolamento "Fondo Asilo e migrazione" e "Fondo Sicurezza interna".
Sentenza della Corte di giustizia (Quarta Sezione) del 6 giugno 2013
(causa C‑648/11, The Queen, su istanza di: MA, BT, DA, c. Secretary of State for the Home Department)
La Corte ha precisato che l'articolo 6, secondo comma, del regolamento n. 343/2003, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda d'asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo, debba essere interpretato nel senso che, qualora un minore non accompagnato, sprovvisto di familiari che si trovino legalmente nel territorio di uno Stato membro, abbia presentato domanda di asilo in più di un Paese dell'Unione, lo «Stato membro competente» per l'esame di tale domanda sia quello nel quale tale minore si trovi dopo avervi presentato una domanda di asilo; tanto, a prescindere da ogni altro criterio di ordine cronologico nell'avanzamento delle richieste, alla luce del superiore interesse del minore, quale criterio generale sancito anche dall'art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
MAGGIO 2013
Sentenza della Corte di giustizia (Terza Sezione) del 30 maggio 2013
La Corte ha sancito che la direttiva 2008/115 (cd. "direttiva rimpatri") ed, in particolare, la possibilità di trattenimento ivi prevista, non risulti applicabile alla situazione di un cittadino di un Paese terzo che abbia presentato una domanda di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2005/85, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, e ciò durante il periodo che intercorre tra la presentazione di tale domanda e l'adozione della decisione dell'autorità investita del giudizio, sia in primo grado che a seguito di ricorso. Tuttavia, se è vero che gli Stati membri non possano trattenere in arresto una persona per il solo motivo che si tratti di un richiedente asilo, è demandato alla discrezionalità delle Autorità nazionali, secondo l'interpretazione resa dalla Corte nella sentenza in commento, il compito di stabilire le ragioni per le quali ne possa essere disposto o mantenuto il trattenimento. Nell'ambito di tale quadro generale, i Giudici di Lussemburgo hanno ritenuto che la citata direttiva n. 2008/85 e la direttiva n. 2003/9, recante norme minime relative all'accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri, non ostino a che il cittadino di un Paese terzo, che abbia presentato una domanda di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2005/85, continui ad essere trattenuto in base ad una norma di diritto nazionale dopo che ne sia stato disposto il trattenimento ai sensi della direttiva 2008/115; tanto in particolare qualora, all'esito della valutazione individuale di tutte le circostanze pertinenti, appaia che tale domanda sia stata presentata al solo scopo di ritardare o compromettere l'esecuzione della decisione di rimpatrio ed a condizione che un tale provvedimento si renda oggettivamente necessario al fine di evitare che l'interessato si sottragga definitivamente al proprio rimpatrio.
Sentenza della Corte di giustizia (Quarta Sezione) del 30 maggio 2013
(causa C‑528/11, Zuheyr Frayeh Halaf c. Darzhavna agentsia za bezhantsite pri Ministerskia savet)
Il giudizio in commento interviene a precisare i contenuti del regolamento n. 343/2003 - che stabilisce i criteri ed i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda d'asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo. A seguito della richiesta d'asilo depositata dal ricorrente, l'autorità bulgara (la "DAB") aveva accertato che quest'ultimo avesse presentato precedentemente un'analoga domanda in Grecia ed aveva pertanto chiesto alle autorità elleniche di riprendere in carico la questione; non avendo ricevuto risposta entro il termine di due settimane fissato dal medesimo regolamento, la DAB aveva ritenuto che la Repubblica ellenica avesse accettato la ripresa in carico del ricorrente, rifiutando quindi di avviare il procedimento per il riconoscimento dello status di rifugiato in capo allo stesso ed autorizzandone il trasferimento verso la Grecia. L'impugnazione di tale provvedimento ha dato origine al giudizio a quo ed a consentito alla Corte di giustizia, adita in via pregiudiziale, di chiarire che l'art. 3, par. 2, del regolamento - a mente del quale ciascuno Stato membro può esaminare una domanda d'asilo presentata da un cittadino di un paese terzo, anche se tale esame non gli competa in base ai criteri stabiliti dal regolamento stesso - consenta a tale Stato di esaminare la domanda anche in assenza delle circostanze che rendano applicabile la clausola umanitaria di cui all'articolo 15 del medesimo regolamento; tale possibilità - secondo la Corte - non è influenzata dal fatto che lo Stato membro "competente" non abbia risposto ad una domanda di ripresa in carico. Nel caso in questione, la Corte ha anche escluso che lo Stato membro in cui si trova il soggetto richiedente asilo sia tenuto, nel corso del procedimento di determinazione dello Stato "competente", a chiedere il parere dell'Alto Commissario delle Nazioni unite per i rifugiati (UNCHR), pure laddove - come avveniva (ed avviene) nel caso di specie con la Grecia - dagli atti di tale Ufficio emerga che tale Stato "competente" violi le norme di diritto dell'Unione dettate in materia di asilo.
Sentenza della Corte di giustizia (Prima Sezione) del 16 maggio 2013
(causa C-589/10, Wencel c. Zakład Ubezpieczeń Społecznych w Białymstoku)
Nel caso in questione, la Corte è stata interrogata, in via pregiudiziale, sull'interpretazione degli artt. 20, par. 2, e 21 TFUE nonché di talune disposizioni del Regolamento n. 1408/71, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi ed ai loro familiari che si spostino all'interno della Comunità. La Corte ha fornito risposto chiarendo innanzitutto che, ai fini dell'applicazione del regolamento n. 1408/71, una persona non possa disporre, contemporaneamente, di due luoghi di residenza abituale nel territorio di due Stati membri distinti. Ciò nondimeno, secondo la Corte, in circostanze come quelle di cui alla causa principale, gli enti competenti degli Stati membri non possono legittimamente sopprimere in modo retroattivo il diritto alla pensione di vecchiaia del beneficiario, e richiedere il rimborso delle indennità pensionistiche che si asserisce siano state indebitamente versate, per il fatto che quest'ultimo percepisca una pensione per superstiti in un altro Stato membro nel cui territorio tale soggetto abbia del pari avuto una residenza. L'importo di detta pensione di vecchiaia percepita nel primo Stato membro può però legittimamente subire una riduzione nel limite dell'importo delle prestazioni corrisposte nell'altro Stato membro in forza dell'applicazione di un'eventuale norma anticumulo nazionale; tanto a condizione che tale decisione non determini, in capo al beneficiario, una situazione sfavorevole rispetto a quella in cui si trovi una persona la cui situazione non presenti alcun elemento transnazionale e purché, nel caso in cui l'esistenza di un tale "svantaggio" sia accertata, essa risulti giustificata da considerazioni oggettive e proporzionata rispetto all'obiettivo legittimamente perseguito dal diritto nazionale, circostanze che incombe al giudice del rinvio verificare.
Sentenza della Corte di giustizia (Settima Sezione) del 16 maggio 2013
La Corte di giustizia, dopo aver ribadito che il diritto di ottenere il rimborso delle imposte riscosse da uno Stato membro in violazione di norme del diritto dell'Unione costituisce la conseguenza ed il complemento dei diritti attribuiti agli amministrati dalle disposizioni del diritto dell'Unione, ha precisato che, in via d'eccezione, siffatta ripetizione possa essere rifiutata qualora comporti un arricchimento senza causa degli aventi diritto: in sostanza, nell'orientamento degli Eurogiudici, la tutela dei diritti garantiti in materia dall'ordinamento giuridico dell'Unione non impone il rimborso di dazi, imposte e tasse riscossi in violazione del diritto dell'Unione quando sia appurato che la persona tenuta al loro pagamento li abbia riversati, di fatto, su altri soggetti. Pertanto, secondo la Corte, il principio del rimborso delle imposte riscosse in uno Stato membro in violazione di norme del diritto dell'Unione dev'essere interpretato nel senso che esso non osti a che uno Stato rifiuti il rimborso di una parte dell'IVA, la cui detrazione sia stata esclusa in forza di un provvedimento nazionale contrario al diritto dell'Unione, per il fatto che detta parte dell'imposta sia stata sovvenzionata da un aiuto concesso al soggetto passivo e finanziato sia dall'Unione europea sia da detto Stato, purché l'onere economico relativo al rifiuto di detrazione dell'imposta sul valore aggiunto sia stato integralmente neutralizzato.
Sentenza della Corte (Seconda Sezione) dell'8 maggio 2013
(Kreshnik Ymeraga e altri c. Ministre du Travail, de l'Emploi et de l'Immigration)
La pronuncia della Corte conferma i principi risultanti dalle sentenze Ruiz Zambrano, McCharty e Dereci in tema di riconoscimento del diritto di soggiorno ai cittadini di Paesi terzi che siano familiari di un cittadino dell'Unione europea che non abbia mai circolato da uno Stato membro all'altro. La Corte ribadisce, infatti, che tale diritto può essere negato dagli Stati membri - a ciò non ostando l'articolo 20 TFUE - allorquando il diniego non comporti per il cittadino europeo interessato la privazione del godimento effettivo del nucleo essenziale dei diritti conferiti dallo status di cittadino dell'Unione.
Sentenza della Corte (Seconda Sezione) dell'8 maggio 2013
La Corte, adita con rinvio pregiudiziale, precisa la portata dell'articolo 12 del Regolamento (CEE) n. 1612/68 trasfuso nella direttiva 2004/38/CE che disciplina la libera circolazione delle persone. In particolare, la sentenza chiarisce due punti: 1) il genitore di un figlio che abbia raggiunto la maggiore età e che abbia esercitato il diritto di accesso all'istruzione ai sensi dell'articolo 12 citato può continuare a godere del diritto derivato di soggiorno qualora la sua presenza e le sue cure permangono necessarie al figlio per consentirgli di proseguire e terminare i suoi studi; 2) ai fini dell'acquisizione del diritto di soggiorno permanente da parte di un cittadino di un Paese terzo familiare di un cittadino dell'Unione è necessario che siano rispettate le condizioni previste dall'articolo 7, paragrafo 1, lettere a), b) o d), della direttiva 2004/38.
Bruxelles, 8.05.2013 COM(2013) 269 final
La Commissione europea definisce dodici nuove azioni da intraprendere al fine di rafforzare e rendere sempre più concreti i diritti dei cittadini dell'Unione europea. Esse ricadono in sei settori fondamentali: eliminazione degli ostacoli per i lavoratori, gli studenti e i tirocinanti dell'UE; riduzione delle formalità burocratiche negli Stati membri; tutela delle persone più vulnerabili; eliminazione degli ostacoli agli acquisti nell'UE; informazioni mirate e accessibili nell'UE; rafforzare la partecipazione alla vita democratica dell'Unione.
La relazione, presentata ai sensi dell'articolo 25 TFUE, descrive gli sviluppi e le azioni principali realizzate a livello di UE in materia di cittadinanza europea per il triennio 2011-2013. Essa dà conto, tra l'altro, delle principali pronunce giurisprudenziali della Corte di giustizia in materia di cittadinanza, dei problemi esistenti in alcuni Stati membri in ordine al riconoscimento e all'applicazione dei diritti dei cittadini, degli sviluppi registrati in tema di libertà di circolazione e di soggiorno, diritti elettorali, tutela consolare, diritto di petizione dinanzi al Parlamento europeo, diritto di ricorso al Mediatore europeo, diritto di iniziativa dei cittadini europei, nonché in relazione al principio di non discriminazione per motivi di nazionalità.
La Relazione annuale presentata dalla Commissione europea intende costituire la base per il necessario "dialogo" tra tutte le istituzioni dell'Unione e gli Stati membri sull'attuazione della Carta dei diritti fondamentali, atteso che quest'ultima rappresenta il punto di riferimento per l'integrazione dei diritti fondamentali in tutti gli atti giuridici dell'Unione e durante l'applicazione del diritto dell'UE da parte degli Stati membri. Pertanto, la Commissione esamina le azioni dell'UE volte a promuovere un'attuazione effettiva della Carta, nonché l'applicazione della stessa da parte degli Stati membri, tenuto conto dell'importante ruolo attribuito ai giudici nazionali nel valutare il rispetto della Carta durante l'applicazione del diritto dell'UE negli ordinamenti nazionali. Infine, la Relazione dettaglia gli sviluppi dei negoziati volti a perfezionare il processo di adesione dell'UE alla CEDU. La Relazione è accompagnata dal Rapporto sui Progressi della parità tra donne e uomini nel 2012 e dai documenti di lavoro dei servizi della Commissione che forniscono informazioni dettagliate sull'applicazione della Carta negli Stati membri.
L'UE si prepara a partecipare al secondo dialogo ad alto livello su migrazione internazionale e sviluppo organizzato dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 3-4 ottobre 2013. L'adozione della presente Comunicazione ha lo scopo di gettare le basi di una posizione comune dell'UE e dei suoi Stati membri per il rafforzamento della cooperazione mondiale; inoltre essa suggerisce i modi in cui l'UE potrebbe rafforzare il collegamento tra migrazione e sviluppo nelle proprie politiche e prassi e propone iniziative per far sì che sia preso sistematicamente in considerazione il ruolo svolto da migrazione e mobilità nel processo di sviluppo sostenibile.
APRILE 2013
La proposta di direttiva del 26 aprile mira a migliorare e rendere più efficace l’applicazione concreta in tutta l'Unione europea dell'articolo 45 del TFUE e del regolamento (UE) n. 492/2011, instaurando un quadro comune generale di disposizioni e misure adeguate volte a facilitare un'applicazione migliore e più uniforme dei diritti conferiti dalla legislazione dell’UE ai lavoratori e ai loro familiari che esercitano il diritto alla libera circolazione. La proposta di direttiva introduce in particolare obblighi giuridici miranti a garantire ai lavoratori migranti dell'UE strumenti opportuni di ricorso a livello nazionale; proteggere ulteriormente i lavoratori facendo sì che le associazioni, le organizzazioni o altri soggetti giuridici aventi un interesse legittimo nella promozione del diritto di libera circolazione dei lavoratori possano avviare un procedimento amministrativo o giudiziario per conto o a sostegno dei lavoratori migranti dell'UE qualora vi sia stata una violazione dei loro diritti; creare strutture od organismi a livello nazionale che promuovano l'esercizio del diritto di libera circolazione fornendo informazioni, sostegno e assistenza ai lavoratori migranti dell'UE vittime di discriminazione basata sulla nazionalità; sensibilizzare i datori di lavoro, i lavoratori e qualsiasi al tra parte interessata fornendo informazioni facilmente accessibili e pertinenti; promuovere il dialogo con le opportune organizzazioni non governative e le parti sociali.
Sentenza della Corte di giustizia (Terza Sezione) del 25 aprile 2013
(causa C-398/11, Hogan e a. c. Minister for Social and Family Affairs)
La Corte ha censurato la condotta dell'Irlanda in merito al recepimento della direttiva 2008/94/CE e ha ribadito il principio già espresso nella sentenza Robin ed altri del 2007, in virtù del quale, in caso d'insolvenza del datore di lavoro, gli Stati membri abbiano l'obbligo d'intervenire a garanzia delle prestazioni di un regime complementare di previdenza professionale per un importo corrispondente almeno alla metà di quello al quale i lavoratori subordinati avrebbero avuto diritto in mancanza della crisi dell'impresa.
Sentenza della Corte di giustizia (Terza Sezione) del 25 aprile 2013
(causa C-81/12, Asociaţia ACCEPT c. Consiliul Naţional pentru Combaterea Discriminării)
La Corte di giustizia ha stabilito che, ai sensi della direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro, le esternazioni discriminatorie provenienti da una persona che si presenti e sia percepita, dal pubblico e dai mass-media, come il patron di una squadra di calcio professionistica, indipendentemente dalla capacità di quest'ultimo di vincolare o rappresentare giuridicamente la società sportiva in materia di assunzioni, possano essere qualificate alla stregua di «fatti sulla base dei quali si può argomentare che sussiste discriminazione», in quanto tali rilevanti ai sensi della direttiva in questione. Di qui l'onere, posto in capo alla società, di provare di non aver operato secondo criteri discriminatori nella scelta dei calciatori da assumere; onere che, per espressa affermazione della Corte, «non implica che la prova richiesta risulti impossibile da produrre se non a pena di ledere il diritto al rispetto della vita privata». Infine, nell'orientamento dei giudici di Lussemburgo, la direttiva de quo dev'essere interpretata nel senso che essa osti ad una normativa nazionale - quale quella applicabile nel caso di specie - secondo la quale, in caso di accertamento di una discriminazione fondata sulle tendenze sessuali, qualora tale accertamento avvenga decorso un termine di prescrizione di sei mesi dalla data dei fatti, non sia possibile pronunciare altro che un ammonimento; tanto se e nella misura in cui l'applicazione di tale normativa comporti in concreto che la discriminazione in questione non venga sanzionata secondo modalità sostanziali e procedurali dotate di carattere effettivo, proporzionato e dissuasivo, qualità - queste ultime - che spetta al giudice nazionale valutare; al medesimo giudice spetta pure, secondo la Corte, evidentemente intenzionata ad evitare che pratiche del genere restino impunite, il compito d'interpretare il diritto nazionale quanto più possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva in questione, così da conseguire il risultato perseguito dalla medesima.
Il sistema di informazione visti (VIS) è un sistema informatico su vasta scala per lo scambio, fra gli Stati dell'area Schengen, di dati relativi ai visti per soggiorni brevi, istituito con la decisione 2004/512/CE del Consiglio. Nato con l'obiettivo di impedire il "visa shopping", esso rappresenta principalmente uno strumento d'assistenza nella lotta contro la migrazione illegale. Il 25 aprile 2013 la Commissione ha presentato la nona e ultima Relazione, in qualità di gestore dell'intero processo di attuazione del VIS dal 2004 all'1.12.2012, data in cui la responsabilità operativa del sistema è passata a eu-LISA. La Relazione dà conto del lavoro svolto nel 2012, principalmente caratterizzato da tre eventi: - il collaudo definitivo del sistema; l'introduzione del sistema in due nuove regioni geografiche; - il trasferimento della responsabilità operativa.
Sentenza della Corte di giustizia (Quinta Sezione) del 18 aprile 2013
La Corte di Lussemburgo, interrogata in via pregiudiziale sull'interpretazione della direttiva 2008/94/CE, relativa alla tutela dei lavoratori subordinati in caso d'insolvenza del datore di lavoro, ha chiarito che l'obbligo di garanzia posto in capo agli Stati membri non debba necessariamente riferirsi ad ogni fase della procedura d'insolvenza del datore; in particolare, secondo la Corte, la corretta trasposizione ed attuazione della direttiva de quo non osta a che gli Stati in questione prevedano, come avveniva (ed avviene) nel caso di specie, l'operatività della garanzia per i soli crediti maturati dai lavoratori prima della trascrizione nel registro delle imprese della sentenza di apertura della procedura d'insolvenza; tanto nonostante il fatto che tale decisione non disponga la cessazione delle attività dell'impresa.
Sentenza della Corte di giustizia (Terza Sezione) del 18 aprile 2013
(causa C-548/11, Edgard Mulders c. Rijksdienst voor Pensioenen)
La Corte di giustizia è stata chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale sull'interpretazione del regolamento n. 1408/71, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi ed ai loro familiari che si spostano all'interno della Comunità; al riguardo, essa ha chiarito che risulta con esso incompatibile una normativa nazionale che, ai fini del calcolo della pensione di vecchiaia di cui godere in uno Stato membro, preveda che un periodo di inabilità lavorativa - durante il quale una prestazione di assicurazione malattia, sulla quale siano stati trattenuti contributi a titolo dell'assicurazione vecchiaia, sia stata versata in un altro Stato membro ad un lavoratore migrante - non sia considerato dalla normativa di tale altro Stato membro quale «periodo di assicurazione» ai sensi del regolamento de quo, sulla base del rilievo che l'interessato non sia residente in quest'ultimo Stato ovvero che abbia beneficiato, in forza della normativa del primo Stato membro, di una prestazione simile che non avrebbe potuto cumularsi con detta prestazione di assicurazione malattia.
Sentenza della Corte di giustizia (Terza Sezione) del 18 aprile 2013
La Corte di giustizia dell'Unione europea ha sancito l'incompatibilità, col diritto dell'Unione, di una normativa nazionale che, ai fini della restituzione di tasse riscosse in violazione del diritto dell'Unione, individui il dies a quo per il calcolo degli interessi maturati sulle somme indebitamente ritenute nel giorno successivo rispetto a quello della domanda diretta ad ottenerne la restituzione; secondo la Corte, una tale disposizione priverebbe infatti il contribuente «di un rimborso adeguato per il danno derivante dalla perdita dovuta all'indebito versamento della tassa». Nell'occasione, i giudici di Lussemburgo hanno avuto modo di ribadire i principi già sanciti al riguardo dalla propria giurisprudenza, ossia che «qualora uno Stato membro abbia prelevato tributi in violazione delle disposizioni del diritto dell'Unione, i singoli [abbiano] diritto al rimborso non solo del tributo indebitamente riscosso, ma altresì degli importi pagati allo Stato o da esso trattenuti in rapporto diretto con tale tributo» e che tale rimborso debba ricomprendere «altresì le perdite derivanti dall'indisponibilità di somme di danaro a seguito dell'esigibilità anticipata del tributo», poiché «il principio dell'obbligo, posto a carico degli Stati membri, di restituire, corredate di interessi, le imposte riscosse in violazione del diritto dell'Unione, discende dal diritto dell'Unione medesimo».
Sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 16 aprile 2013
(causa C-202/11, Las c. PSA Antwerp NV)
È incompatibile con l'art. 45 TFUE una normativa nazionale che imponga a tutti i datori di lavoro che abbiano la propria sede nel territorio di un determinato ente regionale, di redigere i contratti di lavoro a carattere transfrontaliero esclusivamente nella lingua ufficiale di tale ente regionale, a pena di nullità rilevabile d'ufficio dal giudice.
Sentenza della Corte di giustizia (Quarta Sezione) dell'11 aprile 2013
La Corte di giustizia, interrogata in via pregiudiziale, ha interpretato il concetto di "non eccessiva onerosità" dei ricorsi e delle procedure che, in tema di valutazione d'impatto ambientale (di cui alla direttiva 85/337) e di prevenzione e riduzione integrale dell'inquinamento (di cui alla direttiva 96/61), sono dirette a garantire il principio di accesso alla giustizia in materia ambientale sancito dalla Convenzione di Aahrus del 1998. Al riguardo, i giudici europei hanno chiarito che il requisito in questione «implica che alle persone [...] non venga impedito di proporre o di proseguire un ricorso giurisdizionale [...] a causa dell'onere finanziario che potrebbe risultarne»; pertanto, qualora un giudice nazionale «sia chiamato a pronunciarsi sulla condanna alle spese di un privato rimasto soccombente, in qualità di ricorrente, in una controversia in materia ambientale o, più in generale, qualora sia tenuto, come [... avvenuto nel caso di specie,] a prendere posizione, in una fase anteriore del procedimento, su un'eventuale limitazione dei costi che possono essere posti a carico della parte rimasta soccombente, egli deve assicurarsi del rispetto di tale requisito tenendo conto tanto dell'interesse della persona che desidera difendere i propri diritti quanto dell'interesse generale connesso alla tutela dell'ambiente». La Corte ha precisato altresì che, nell'ambito di tale valutazione, il giudice nazionale non possa basarsi unicamente sulla situazione economica dell'interessato, ma debba altresì procedere ad un'analisi oggettiva dell'importo delle spese, potendo (e dovendo) prendere in considerazione «[...] la situazione delle parti in causa, [...]le ragionevoli possibilità di successo del richiedente, [...]l'importanza della posta in gioco per il medesimo e per la tutela dell'ambiente, [...]la complessità del diritto e della procedura applicabili, [... il] carattere eventualmente temerario del ricorso nelle sue varie fasi nonché [...]la sussistenza di un sistema nazionale di assistenza giurisdizionale o di un regime cautelare in materia di spese»; infine, nell'orientamento dei giudici di Lussemburgo, « tale valutazione non può essere compiuta in base a criteri diversi a seconda che essa abbia luogo in esito ad un procedimento di primo grado, ad un appello o ad un'ulteriore impugnazione», mentre «la circostanza che l'interessato, in concreto, non sia stato dissuaso dall'esercitare la sua azione non è sufficiente, di per sé, per considerare che il procedimento non sia eccessivamente oneroso per il medesimo».
Sentenza della Corte di giustizia (Seconda Sezione) dell'11 aprile 2013
La Corte di giustizia ha interpretato la nozione di «handicap» di cui alla direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro, alla luce della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 26 novembre 2009; la Corte ha ritenuto poi che la riduzione dell'orario di lavoro uno dei provvedimenti di adattamento che il datore possa (ed, all'occorrenza, debba) adottare per consentire ai disabili l'accesso e lo svolgimento del lavoro, la progressione di carriera e la formazione. Nella sentenza, si è statuito infine che - fatta salva la valutazione, in concreto, della legittimità degli obiettivi perseguiti dal legislatore e della proporzionalità delle misure all'uopo adottate - il diritto dell'Unione osti ad una disposizione nazionale che preveda che un datore possa porre fine al contratto di lavoro con un preavviso ridotto qualora, come avvenuto nel caso di specie, il lavoratore disabile interessato sia stato assente per malattia e tali assenze siano la conseguenza dell'omessa adozione, da parte del datore stesso, dei provvedimenti appropriati ovvero quando le assenze suddette siano diretta conseguenza dell'handicap.
Sentenza della Corte di giustizia (Ottava Sezione) dell’11 aprile 2013
(causa C-290/12, Della Rocca c. Poste Italiane SpA)
Con tale sentenza, la Corte è tornata a pronunciarsi in merito all'interpretazione della direttiva 1999/70, che recepisce l'Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dalla CES, dalla CEEP e dall'UNICE. All'origine del rinvio, la controversia che contrappone alle Poste italiane S.p.A. un nostro connazionale, il quale ha concluso, negli anni scorsi, tre contratti a tempo determinato con una società di lavoro interinale, in forza dei quali è stato messo a disposizione della convenuta società postale. Quest'ultima, com'è noto alle cronache, è stata condannata ripetutamente, proprio a seguito di interventi "chiarificatori" resi in via pregiudiziale dalla Corte di Lussemburgo, per aver adoperato pratiche di illegittima "reiterazione" nei rapporti di lavoro a tempo determinato ovvero per aver fatto ricorso a tale forma contrattuale in assenza di esigenze determinate e debitamente specificate. Analoga non sarà, tuttavia, la sorte del giudizio principale nel cui ambito è sorta la questione pregiudiziale in commento, poiché la Corte ha chiarito che la normativa de quo non si applichi né ai rapporti di lavoro a tempo determinato intercorrenti tra i lavoratori interinali e le agenzie di lavoro interinale né ai rapporti di lavoro a tempo determinato intercorrenti tra tali lavoratori e le imprese utilizzatrici, in tal modo fugando ogni dubbio in merito al sospetto di "anticomunitarietà" della normativa italiana di recepimento manifestata nell'ordinanza di rinvio dal rimettente Tribunale di Napoli.
Sentenza della Corte di giustizia (Terza Sezione) dell’11 aprile 2013
La Corte è stata interrogata in via pregiudiziale sull'interpretazione degli articoli 65 e 87, par. 8, del regolamento n. 883/2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, nonché sull'articolo 45 TFUE e sull'articolo 7, par. 2, del regolamento n. 1612/68, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità. I giudici di Lussemburgo hanno risposto ai quesiti loro formulati nel senso che, in seguito all'entrata in vigore del regolamento 883/2004, le disposizioni contenute nel relativo art. 65 non debbano essere interpretate alla luce della sentenza "Miethe" del 1986, e che quindi, nel caso di un lavoratore frontaliero che si trovi in stato di disoccupazione completa e che abbia conservato con lo Stato membro di ultima occupazione legami personali e professionali tali da fargli ivi disporre di maggiori opportunità di reinserimento professionale, il suddetto art. 65 debba essere inteso nel senso che esso consenta a tale lavoratore di mettersi a disposizione degli uffici del lavoro di detto Stato in via supplementare, non già per poter ottenere da quest'ultimo un'indennità di disoccupazione, bensì unicamente per poter ivi beneficiare dei servizi di ricollocamento. In conseguenza di ciò, le disposizioni relative alla libera circolazione dei lavoratori, in particolare l'articolo 45 TFUE, vanno interpretate, secondo la Corte, nel senso che esse non ostino a che lo Stato membro dell'ultima occupazione rifiuti, sulla base del suo diritto nazionale, di concedere il beneficio dell'indennità di disoccupazione ad un lavoratore che si trovi nelle condizioni sopra descritte, per il motivo che egli non risieda nel proprio territorio, dal momento che, conformemente al più volte menzionato art. 65, la normativa applicabile è quella dello Stato membro di residenza. Interrogata pure sulla nozione di «situazione invariata» ex art. 87, par. 8, reg. 883/2004 - tale da giustificare, in deroga alla disciplina suesposta, la prosecuzione della soggezione del lavoratore alla legislazione individuata a norma del regolamento n. 1408/71 - la Corte ha precisato che tale nozione debba essere interpretata con riferimento alla normativa nazionale dettata in materia di previdenza sociale, onerando pertanto il giudice a quo del compito di operare tale valutazione.
Progetto di adesione dell’UE alla CEDU:
Il 5 aprile 2013 è stata adottata la bozza di accordo di adesione dell'Unione europea alla CEDU che rappresenta un passo decisivo verso la conclusione del lungo processo di negoziato iniziato nel luglio del 2010. Il testo dovrà essere sottoposto al giudizio di compatibilità con i Trattati UE da parte della Corte di giustizia e, successivamente, potrà essere autorizzata la stipula dell'accordo di adesione da parte del Consiglio dell'Unione europea con una decisione presa all'unanimità. Unitamente alla bozza di accordo, il Rapporto conclusivo del Comitato Direttivo per i Diritti dell'Uomo del Consiglio d'Europa (CDDH) sull'adesione dell'Unione europea alla CEDU contiene altri 4 documenti: la bozza di dichiarazione che l'UE dovrà rendere al momento della firma dell'adesione; la bozza di emendamento al Regolamento del Comitato dei Ministri sulla supervisione nell'esecuzione delle sentenze della Corte EDU e dei termini delle conciliazioni nei casi in cui l'UE sia parte dei giudizi, un modello di Memorandum di intesa ed una bozza di Rapporto Esplicativo dell'accordo di adesione.
MARZO 2013
Sentenza della Corte di giustizia del 21 marzo 2013
(causa C-254/11, Szabolcs-Szatmár-Bereg Megyei Rendőrkapitányság Záhony Határrendészeti Kirendeltsége c. Shomodi)
La Corte è stata interrogata, in via pregiudiziale, sull'interpretazione del regolamento n. 1931/2006, che, nel modificare le disposizioni della "Convenzione Schengen", reca norme sul traffico locale alle frontiere terrestri esterne degli Stati membri. In particolare, per quel che qui rileva, il summenzionato regolamento, mosso dall'obiettivo di «agevolare il passaggio [...] da parte dei residenti frontalieri in buona fede [...] aventi legittimi motivi di attraversare di frequente la frontiera terrestre esterna», demanda agli Stati membri il compito di stipulare, sotto il controllo della Commissione, accordi bilaterali con i Paesi terzi limitrofi, fissando in ogni caso in tre mesi la durata massima di ciascun soggiorno ininterrotto. La causa da cui ha tratto origine il rinvio è sorta in seguito al diniego d'ingresso opposto dalle autorità ungheresi ad un cittadino ucraino che, nei mesi precedenti al nascere della questione, era entrato ed uscito ripetutamente dal territorio di frontiera, quasi sempre trattenendovisi per poche ore: le autorità locali, infatti, avevano parametrato la misura massima della sua permanenza sulla base dei criteri sanciti dalla "Convenzione Schengen" - della quale il regolamento n. 1931 fa salvo l'acquis - ossia tre mesi totali da calcolarsi nell'arco di un semestre. La Corte di giustizia ha chiarito, da un lato, che il limite di tre mesi previsto dal regolamento de quo si applica esclusivamente ai soggiorni ininterrotti e, dall'altro, che ogni passaggio in uscita dalla frontiera vale comunque ad interrompere il decorso del suddetto termine trimestrale.
Ordinanza della Corte di giustizia (Terza sezione) del 21 marzo 2013
(causa C-522/11, Abdoul Khadre Mbaye)
Con la presente ordinanza, la Corte di giustizia torna a pronunciarsi sulla direttiva 115/2008/CE (cd. direttiva rimpatri) ed, in particolare, sulla questione della compatiblità con essa del reato di soggiorno irregolare previsto negli ordinamenti di alcuni Stati membri dell'UE. Nel caso di specie, richiamando il precedente caso Sagor, la Corte ha affermato che l'imputazione o la condanna di un cittadino di un Paese terzo per il reato di soggiorno irregolare non sottrae quest''ultimo dall'ambito di applicazione della direttiva rimpatri. La direttiva non osta però alla normativa di uno Stato membro che sanzioni il soggiorno irregolare di cittadini di paesi terzi con un'ammenda sostituibile con la pena dell'espulsione, ma tale facoltà di sostituzione può essere esercitata solo se la situazione dell'interessato corrisponde a una di quelle previste dall'articolo 7, paragrafo 4, della direttiva.
Ordinanza della Corte di giustizia del 14 marzo 2013
(causa C-555/12, Loreti e a. c. Comune di Zagarolo)
L'ordinanza in questione chiude una pregiudiziale che ha tratto origine dalla controversia insorta tra il Comune di Zagarolo ed alcuni residenti locali; questi ultimi, considerando pregiudicato il proprio diritto di proprietà a seguito dei lavori di ampliamento di uno stabile comunale, avevano chiesto tutela al giudice ordinario, il quale, applicando l'orientamento giurisprudenziale dominante all'epoca dell'introduzione del giudizio, aveva ritenuto sussistente la sua giurisdizione ed aveva istruito la causa. Tuttavia, come rilevato dal giudice a quo, l'attuale giurisprudenza nazionale imporrebbe al remittente di dichiarare il proprio difetto di giurisdizione e di demandare la cognizione al giudice amministrativo. Di qui la questione della compatibilità del sistema italiano di riparto della giurisdizione con l'art. 6 della CEDU e con gli artt. 47 e 52, par. 3, della Carta, stante l'attribuzione ad organi diversi «del potere di decidere su posizioni giuridiche soggettive in astratto diversificate ma in concreto di difficile o impossibile certa identificazione», col conseguente «défaut de sécurité juridique» e con le difficoltà di accesso alla giustizia che ne discenderebbero. Una questione ardita, volendo usare un eufemismo, che si è scontrata, com'era invero facilmente prevedibile, con la dichiarazione di manifesta incompetenza della Corte per estraneità della questione all'ambito di applicazione del diritto dell'Unione.
Raccomandazione della Commissione del 12 marzo 2013 "sul rafforzare l'efficienza e la democrazia nello svolgimento delle elezioni del Parlamento europeo"
In vista delle prossime elezioni del Parlamento europeo previste per il 2014, la Commissione ha adottato una Raccomandazione vertente su due punti principali: svolgimento democratico delle elezioni e svolgimento efficiente delle elezioni. Sotto il primo profilo, la Commissione raccomanda agli Stati membri di adottare soluzioni che, in buona sostanza, portino ad un rafforzamento dei partiti politici europei. In ordine al secondo profilo, la Commissione invita alla creazione di un'autorità di contatto unica e ad assicurare meccanismi sicuri ed efficienti di trasmissione dei dati elettorali.
Decisione n. 252/2013/UE del Consiglio dell'11 marzo 2013 che istituisce un quadro pluriennale per il periodo 2013-2017 per l'Agenzia dell'Unione europea per i diritti fondamentali.
Il Consiglio ha adottato il secondo piano pluriennale (per il periodo 2013-2017) per l'Agenzia dell'Unione europea per i diritti fondamentali, istituita dal Regolamento (CE) n. 168/2007. Il piano definisce i settori tematici principali nei quali l'Agenzia deve svolgere la propria attività ed altresì assicura la complementarità e la cooperazione dell'Agenzia con gli altri organismi europei.
Relazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo sull'attuazione dello "Strumento Schengen" (2004-2006) COM/2013/0115 def.
Lo "strumento Schengen" ha rappresentato, per il periodo 2004-2006, un meccanismo di aiuto finanziario per sette dei dieci Stati membri che hanno aderito all'Unione europea nel 2004 (Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Slovacca e Slovenia). Esso è stato istituito ai sensi dell'articolo 35 e dell'allegato I dell'atto di adesione allo scopo favorire i processi di modernizzazione della gestione delle frontiere al fine di aderire allo spazio Schengen. Nella Relazione COM/2013/0115 def., la Commissione dà conto in maniera dettagliata delle modalità di attuazione di tale strumento e dell'utilizzo dei finanziamenti da parte degli Stati membri beneficiari.
Sentenza della Corte di giustizia del 7 marzo 2013
(causa C-127/11, van den Booren c. Rijksdienst voor Pensioenen)
La questione pregiudiziale posta all'attenzione della Corte verteva sull'interpretazione del regolamento CEE n. 1408/71 ed, in particolare, del relativo art. 46 bis, contenente le disposizioni generali relative alle clausole di riduzione, sospensione o soppressione applicabili alle prestazioni di invalidità, di vecchiaia o per i superstiti percepite in diversi Stati membri. Al giudice del rinvio si è rivolta una residente nei Paesi Bassi, la signora van der Booren, la quale - in quanto moglie di un minatore, poi deceduto, che aveva prestato la propria in Belgio - aveva percepito, sin dal 1986, una pensione olandese di vecchiaia ed una pensione belga per superstiti. Nel 2003 l'importo della prestazione di vecchiaia riconosciuto alla signora era stato elevato, in quanto il legislatore olandese aveva colmato un vuoto normativo relativo a fattispecie analoghe a quella del caso de quo, riguardanti proprio le mogli superstiti di lavoratori che, avendo esercitato all'estero la propria attività professionale, non erano assicurati in base alla legge pensionistica nazionale. A seguito di tale incremento, l'Istituto nazionale di previdenza belga aveva deciso di ridurre l'importo della pensione per superstiti della ricorrente; contro tale provvedimento aveva fatto ricorso la van der Booren, la quale lamentava, tra l'altro, la violazione del suddetto art. 46 bis. La Corte ha chiarito che, fatto salvo il rispetto delle condizioni ivi enunciate, tale norma dev'essere interpretata nel senso che essa non osta all'applicazione di una normativa nazionale che preveda una clausola in forza della quale una pensione per superstiti venga ridotta a seguito dell'aumento di una pensione di vecchiaia percepita in un altro Stato membro; ma la Corte ha fornito risposta negativa anche all'altra questione di "compatibilità comunitaria" avanzata dalla ricorrente, la quale ravvisava un'ipotesi di contrasto col principio di non discriminazione e con le norme del Trattato sulla libera circolazione dei lavoratori: tanto, a parere del Kirchberg, nella misura in cui la normativa nazionale non determini, in capo all'interessato, una situazione sfavorevole rispetto a quella in cui si trova una persona la cui situazione non presenti alcun elemento transnazionale e nella misura in cui, pur verificandosi una situazione di "svantaggio", essa sia giustificata da considerazioni oggettive e proporzionata rispetto all'obiettivo legittimamente perseguito dal diritto nazionale: ciò che, secondo la Corte, spetta al giudice del rinvio accertare.
Ordinanza della Corte di giustizia del 7 marzo 2013
(causa C-128/12, Sindacato dos Bancariós do Norte e a. c. BPN SA)
La Corte è stata interrogata, in via pregiudiziale, sulla compatibilità, con la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, della legge finanziaria portoghese del 2011, nella parte in cui dispone tagli salariali per alcune categorie di lavoratori del settore pubblico. Secondo il giudice del rinvio, tale normativa, nel porre in essere una qualche forma di discriminazione rispetto ai lavoratori del settore privato, sarebbe suscettibile di determinare una antinomia col disposto degli artt. 20 e 21, par. 1, della Carta nonché col diritto a condizioni di lavoro dignitose di cui all'art. 31, par. 1, della medesima. In tal caso, tuttavia, la mancanza di un collegamento della fattispecie col diritto dell'Unione, invero nemmeno prospettata dal giudice a quo, ha imposto alla Corte una dichiarazione di irricevibilità.
Decisione del Consiglio del 7 marzo 2013, che stabilisce la data di applicazione della decisione 2007/533/GAI, sull'istituzione, l'esercizio e l'uso del sistema d'informazione Schengen di seconda generazione (SIS II), (2013/157/UE)
Con decisione del Consiglio del 7 marzo 2013 diviene operativo il sistema informativo Schengen di seconda generazione (cd. «SIS II»), ovvero un sistema informativo contenente segnalazioni su persone e oggetti, che sostituisce il sistema di prima generazione, operativo a partire dal 1995 e successivamente esteso nel 2005 e nel 2007. La decisione 2013/157/UE fissa, infatti, al 9 aprile 2013 la data di applicazione della decisione 2007/533/GAI, sull'istituzione, l'esercizio e l'uso del sistema d'informazione Schengen di seconda generazione; quest'ultima, ai sensi dell'art. 71, par. 2, deve «applicarsi agli Stati membri partecipanti al SIS 1+ a partire da una data che il Consiglio stabilirà, deliberando all'unanimità dei suoi membri che rappresentano i governi degli Stati membri partecipanti al SIS 1+».
Pubblicata la Decisione di esecuzione della Commissione, del 26 febbraio 2013, riguardante il manuale Sirene e altre disposizioni di attuazione per il sistema d'informazione Schengen di seconda generazione (SIS II), (2013/115/UE), in GUUE L 71 del 14 marzo 2013
La decisione di esecuzione della Commissione, del 26 febbraio 2013, riguardante il manuale Sirene e altre disposizioni di attuazione per il sistema d'informazione Schengen di seconda generazione (SIS II), al pari della decisione 2010/261/UE della Commissione, del 4 maggio 2010, relativa al piano di sicurezza per il SIS II centrale e l'infrastruttura di comunicazione, si inserisce nel contesto delle disposizioni di attuazione previste dall'art. 71, paragrafo 3, lett. a), della decisione 2007/533/GAI, del Consiglio (cd. «decisione SIS II»). Ai sensi del citato articolo, la decisione SIS II si applicherà, infatti, a partire dalla data indicata dal Consiglio «una volta adottate le necessarie disposizioni di attuazione».
FEBBRAIO 2013
Sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 26 febbraio 2013
(causa C‑617/10, Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson)
La sentenza trae origine da una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte da parte di un organo giurisdizionale svedese vertente sull’interpretazione del principio del ne bis in idem nel diritto dell’Unione europea. La Corte ritiene innanzitutto che tale principio, sancito dall’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non osta a che uno Stato membro imponga, per le medesime violazioni di obblighi dichiarativi in materia di imposta sul valore aggiunto, una sanzione tributaria e successivamente una sanzione penale, qualora la prima sanzione non sia di natura penale, circostanza, quest’ultima, che va verificata dal giudice nazionale. Inoltre, la pronuncia offre alla Corte la possibilità di ribadire che il diritto dell’UE non disciplina i rapporti tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le conseguenze che un giudice nazionale deve trarre nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale Convenzione ed una norma di diritto nazionale. Infine, secondo la Corte il diritto dell’UE non vieta una prassi giudiziaria che subordina l’obbligo, per il giudice nazionale, di disapplicare ogni disposizione che sia in contrasto con un diritto fondamentale garantito dalla Carta alla condizione che tale contrasto risulti chiaramente dal tenore della medesima o dalla relativa giurisprudenza, dal momento che essa priva il giudice nazionale del potere di valutare pienamente, se del caso con la collaborazione della Corte di giustizia, la compatibilità di tale disposizione con la Carta stessa.
Pubblicato l’aggiornamento dell’elenco dei valichi di frontiera di cui all’articolo 2, paragrafo 8, e l’aggiornamento dell'elenco dei permessi di soggiorno di cui all’articolo 2, paragrafo 15, del Regolamento (CE) n. 562/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, che istituisce un codice comunitario relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone (Codice frontiere Schengen).
La Risoluzione del Parlamento europeo ha ad oggetto l'accesso al pubblico dei documenti quale corollario del principio della trasparenza. Quest'ultimo rappresenta una regola generale la quale, con il Trattato di Lisbona e con l'acquisto della forza vincolante da parte della Carta dei diritti fondamentali dell'UE è divenuta un diritto fondamentale dell'Unione (articolo 41 della Carta, connesso all'articolo 42 sul diritto ad una buona amministrazione). Pertanto, tra gli aspetti più rilevanti della Risoluzione vi è la considerazione che le decisioni che negano l'accesso agli atti debbano fondarsi su eccezioni definite in modo chiaro e rigoroso ed essere fondate su solidi argomenti e valide motivazioni, tali da consentire ai cittadini di comprendere il motivo del rifiuto e di esperire in modo efficace la possibilità di ricorso a loro disposizione.
Sentenza della Corte di giustizia (Terza Sezione) del 21 febbraio 2013
La sentenza chiarisce la portata di alcune norme del Regolamento (CEE) n. 1408/71 del Consiglio, del 14 giugno 1971, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità, nella versione modificata ed aggiornata dal Regolamento (CE) n. 118/97 del Consiglio, del 2 dicembre 1996, come modificato dal Regolamento (CE) n. 1399 del Consiglio, del 29 aprile 1999. In particolare, la Corte ritiene che gli articoli 72, 78, par. 2, lett. b) e 79, par. 1, comma 2, lett. a) vadano interpretati nel senso che, qualora la normativa nazionale di uno Stato membro preveda che sia il genitore defunto sia il genitore superstite, quando abbiano la qualità di lavoratori, possano fondare il diritto a prestazioni per orfani, tali disposizioni richiedono che i periodi di assicurazione e di occupazione maturati dal genitore superstite in un altro Stato membro siano presi in considerazione ai fini del cumulo dei periodi necessari all’acquisto del diritto a dette prestazioni nel primo di questi Stati membri. Al riguardo, non assume rilievo il fatto che il genitore superstite non possa far valere alcun periodo di assicurazione o di occupazione in tale Stato membro nel corso del periodo di riferimento fissato dalla normativa nazionale ai fini dell’acquisto del diritto.
Sentenza della Corte di giustizia (Prima Sezione) del 21 febbraio 2013
(causa C-282/11, Concepción Salgado González)
La normativa europea relativa all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all’interno dell’Unione europea osta alla normativa di uno Stato membro che preveda che l’importo teorico della pensione di vecchiaia del lavoratore autonomo, emigrante o meno, sia sempre calcolato a partire dalle basi contributive del lavoratore per un periodo di riferimento fisso che precede il versamento della sua ultima contribuzione in tale Stato, cui viene applicato un divisore fisso, senza che né la durata di tale periodo né detto divisore possano essere adeguati per tener conto del fatto che il lavoratore abbia esercitato il suo diritto alla libera circolazione. In tal senso la Corte ha interpretato l’articolo 48 del TFUE e gli articoli 3, 46, par. 2, lett. a) e 47, par. 1, lett. g) del Regolamento (CEE) n. 1408/71 del Consiglio del 14 giugno 1971.
Sentenza della Corte di giustizia (Quinta Sezione) del 21 febbraio 2013
La sentenza resa in via pregiudiziale verte sull’interpretazione della direttiva 85/384/CEE del Consiglio del giugno 1985, concernente il reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli del settore dell’architettura e comportante misure destinate ad agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi. In particolare, gli articoli 10 e 11 di tale direttiva devono essere interpretati nel senso che essi ostano ad una normativa nazionale secondo cui persone in possesso di un titolo abilitante all’esercizio di attività nel settore dell’architettura ed espressamente menzionato nell’articolo 11, rilasciato da uno Stato membro diverso dallo Stato membro ospitante, possono svolgere, in quest’ultimo Stato, attività riguardanti immobili di interesse artistico solamente qualora dimostrino, eventualmente nell’ambito di una specifica verifica della loro idoneità professionale, di possedere particolari qualifiche nel settore dei beni culturali.
Sentenza della Corte di giustizia (Terza Sezione) del 21 febbraio 2013
(causa C‑46/12, L.N. c. Styrelsen for Videregående Uddannelser og Uddannelsesstøtte)
Con la sentenza de qua, la Corte di giustizia chiarisce che gli aiuti di mantenimento agli studi concessi ai cittadini di uno Stato membro non possono essere negati a un cittadino dell’Unione che ivi soggiorni, che segua degli studi e svolga, in parallelo, un’attività subordinata reale ed effettiva tale da conferirgli la qualità di “lavoratore” ai sensi dell’articolo 45 del TFUE. Gli accertamenti di fatto necessari al fine di valutare se le attività subordinate del ricorrente nel procedimento principale siano sufficienti per conferirgli la qualità di “lavoratore” spettano al giudice del rinvio. In ta senso vanno interpretati gi articolo 7, paragrafo 1, lett. c) e 24, paragrafo 2 della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamento nel territorio degli Stati membri. Secondo la Corte, la circostanza che l’interessato abbia fatto ingresso sul territorio dello Stato membro ospitante con l’intento precipuo di seguirvi i propri studi non è rilevante al fine di determinare se egli abbia la qualità di “lavoratore” ai sensi dell’articolo 45 TFUE e, di conseguenza, se abbia diritto a siffatti aiuti alle stesse condizioni di un cittadino dello Stato membro ospitante a norma dell’articolo 7, paragrafo 2 del Regolamento (CEE) n. 1612/68 relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità.
La Commissione ha adottato un Regolamento di attuazione ai sensi dell’articolo 9 del Regolamento (CEE) n. 1338 emanato dal Parlamento europeo e dal Consiglio nel 2008, il quale stabilisce un quadro comune per la produzione sistematica di statistiche europee in materia di sanità pubblica e di salute e sicurezza sul luogo di lavoro. Le misure di attuazione definiscono i dati e i metadati da fornire sullo stato di salute, sui determinanti della salute e sull’assistenza sanitaria oggetto del Regolamento n. 1338.
Ordinanza della Corte di giustizia (Decima Sezione) del 7 febbraio 2013
(causa C‑498/12, Antonella Pedone c. N)
La Corte di giustizia è stata chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale sulla compatibilità dell’articolo 130 del DPR n. 115/2002 (testo unico italiano delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia) con l’articolo 47, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) che sanciscono il diritto al patrocinio a spese dello Stato. Richiamando l’articolo 51 della Carta che stabilisce che le disposizioni della medesima si applicano “agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione” e considerato che la decisione di rinvio non contiene alcun elemento concreto tale da consentire di concludere che l’oggetto del procedimento principale riguardi l’interpretazione o l’applicazione di una norma dell’Unione diversa da quelle di cui alla Carta, la Corte ha dichiarato la propria manifesta incompetenza a rispondere alle questioni poste dal Tribunale di Tivoli.
GENNAIO 2013
A seguito di rinvio pregiudiziale sollevato dall'High Court irlandese, la Corte ha dichiarato compatibile con la direttiva 2005/85/CE del Consiglio del 1° dicembre 2005 (recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato) l'applicazione da parte di uno Stato membro di una procedura prioritaria o accelerata per l'esame di determinate categorie di domande di asilo, definite in funzione del criterio della cittadinanza o del paese d'origine del richiedente, purché rispettosa dei principi fondamentali e delle garanzie poste dal capo II della medesima direttiva. La Corte fa leva sull'intenzione del legislatore dell'Unione di lasciare un'ampia discrezionalità agli Stati membri nell'applicazione delle procedure di esame delle domande di asilo e sulla considerazione che l'elenco delle domande che possono essere esaminate in via prioritaria o accelerata contenuto nei parr. 3 e 4 dell'articolo 23 della direttiva è indicativo e non esaustivo.Altresì, la Corte si è pronunciata sulla compatibilità della normativa irlandese con l'articolo 39 della direttiva sul diritto ad un mezzo di impugnazione efficace.
Sentenza della Corte di giustizia (Quinta sezione) del 17 gennaio 2013
(causa C-23/12, Zakaria)
La Corte ha interpretato l'articolo 13, paragrafo 3, del Regolamento n.562/2006 (che istituisce un codice comunitario relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone - Codice frontiere Schengen -), ritenendo che esso prevede l'obbligo per gli Stati membri di predisporre un mezzo di ricorso soltanto contro le decisioni di diniego d'ingresso nel loro territorio e non anche contro asserite violazioni del rispetto della dignità umana in sede di controllo alle frontiere.